mercoledì 8 aprile 2020

Diario ai tempi del Coronavirus (7-10 aprile)

7.04.2020 h. 7:45



Il sole illumina la stanza di una luce intensa. Mi affaccio dal balcone sulle strade vuote, sul silenzio delle cose che compongono questo paesaggio, anch'io ridotto a "silenzio di cosa". Nessun suono, nessuna voce, nessun nome. Ogni parte del paesaggio è fissata nella sua essenza: la casa è una casa, la collina una collina, la ringhiera una ringhiera. Nessun segreto da svelare, nessun simbolo nascosto. Le cose sono così, oggi, rimandano ai miei occhi il loro essere e mi parlano in modo semplice, mi ricordano la vita che prosegue. Ma la vita aspetta? Questo mi chiedo. Forse ci stiamo abituando a questo stare chiusi, al guardare dalla distanza (di uno schermo, di un balcone), a veder scorrere la vita delle cose fissando la nostra in queste stanze, in questo stare. La sveglia mi dice che sono le 7:52, il corpo mi invita ad andare, a correre sul ponte, intorno a Montereale. E sono stanco, a volte disperato a volte lieto, ma sono stanco, perché le cose rimangono mute al mio sguardo anche se le fisso, aspettando che avvenga un miracolo. Non arriva, non arriva mai.

h. 14:51
La casa-tana, la casa-totem che ci protegge è diventata la nostra nemica, o almeno la mia. Il rischio che paventavo in un'altra pagina sembra diventato reale. È il rischio di stare bene a casa, nel caldo abbraccio delle pareti domestiche, tra i familiari, gli schermi, i libri.
Oggi l'ho provato forte. Ho dovuto fare uno sforzo per uscire, andare in garage a prendere dalla dispensa le cose che servivano, nonostante il sole, nonostante i molti giorni che sono chiuso in casa. Nell'uscire ho chiesto ai miei figli di accompagnarmi. Ecco, è qui forse che ho sentito come sarà difficile riprendere una vita tranquilla, perché i miei figli hanno detto di no, anche chi, Matteo, nei primi giorni di quarantena mi chiedeva sempre di uscire. Non Giulio, così simile a me nel trovare il proprio luogo in un angolo qualunque della casa in cui stare da solo.
Fuori c'è un bel sole. Attraverso il ponte di Montereale senza fretta, respirando l'aria primaverile. Nessun suono, nessuna macchina. Fatti i servizi, rientro. Fotografo Potenza dal giardino sotto i tigli e ripercorro lento la stessa strada. C'è una voce che grida "Chi mi viene a prendere?", "Chi mi viene a prendere?". Più volte.
Nessuno risponde. nessuno grida il suo nome, il mio nome. Nemmeno io.


8.04.06 h. 15:40

Un uomo, un atleta, per tanti ragazzi un maestro, un modello, un padre. Un altro doloroso addio. Prima di conoscere l'uomo ho conosciuto il "mito" Donato Sabia, l'ottocentometrista le cui gare guardavo in tv nei miei diciott'anni. Poi ho conosciuto, come dirigente di una società di basket, l'uomo gentile dell'Ufficio Sport, attento ai bisogni delle società sportive e dello sport sano, l'allenatore attento ai ragazzi che si affacciavano al mondo sportivo, il divulgatore sensibile, comprensivo e onesto, schivo e generoso.



9.04.2020 h. 17:17

Sono uscito con la macchina dopo più di un mese (l'ultima volta era stata il 3 marzo) per un servizio urgente presso uno studio ortodontico. Riprendere la macchina in una città semi deserta comporta rapidità negli spostamenti e nel ritorno a casa. A parte un giovane che corre come se la strada fosse una pista di formula 1 niente mi ha colpito: la cosa più importante di questa giornata è il sole, caldo, luminoso, in un cielo azzurro che fa male.

Bisognerà ricordare anche questi giorni, insieme a quelli di neve e di vento, quando torneremo ad uscire, questi giorni normali che non ci lasciano segni, sogni. Bisognerà ricordarli perché fanno parte di questo mese in cui si sono alternate paure e speranze, dolore e gioie improvvisi, parole e silenzi, a cui si aggiungono questi giorni grigi in cui non c'è niente da raccontare se non questo sole forte, questa luce intensa che brucia gli occhi.




10.04.2020 h. 15:09

Di maschere, mascherine e altre sottigliezze


Ci sono maschere che coprono volto e cuore, che fissano per sempre una immagine di noi, irrigiditi in una immobilità di finzione, il nostro quotidiano inganno per vivere le relazioni; ci sono maschere che ci danno gli altri e che ci bloccano per sempre in un ruolo, imperitura immagine di noi, in una forma che si muove in mezzo ad altre forme occupate a ritagliarsi il loro piccolo spazio nella recita quotidiana della vita; ci sono maschere a protezione della vita, dietro cui si intravedono sorrisi, occhi stanchi ma fermi, paura anche ma ferma volontà di portare a compimento il proprio lavoro, anche a rischio della vita. Ecco, pensavo a questo leggendo della morte quotidiana di medici ed infermieri, gli unici che portano una maschera che non nasconde il viso ed il cuore. 



(Testi pubblicati, con modifiche, su Cronache di una pandemia, in Totem magazinehttps://www.totemmagazine.it/)

2 commenti:

  1. Queste parole raccontano di una normalità artificiale che paurosamente sta diventando abitudine.Anche per me, la casa, il luogo degli affetti e del desiderio di tornarci perché luogo di protezione, oggi la vivo come luogo-limite da ciò che finora era il mio mondo.

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    1. Il rischio è proprio l'abitudine, far diventare normalità ciò che normale non è. Torneremo alla vita. Spero migliorati.

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