domenica 31 maggio 2020

Gioco del jukebox


𝗚𝗶𝗼𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗷𝘂𝗸𝗲𝗯𝗼𝘅 - interno giorno 1
7 giorni, 7 canzoni della nostra adolescenza (quelle dei jukebox? Ma io non ho mai ascoltato canzoni dal jukebox sia perché non frequentavo locali col jukebox, sia perché non avevo soldi da spendere al jukebox...), 7 tag (mi dispiace ma non ho tag da fare se non quelli che già sono stati taggati...).
Grazie (?) a chi ha deciso di regalarmi questo salto in vergognose canzoni della mia adolescenza (Rosa Maria Petracca Altieri), a chi mi ha sponsorizzato (Giovanni Filiani) sapendo bene quello che faceva, a chi ha già postato canzoni che potevano essere postate da me (Stefania Laurenzana, Maddalena Rotundo), a chi l'ha visto, a chi non c'era e a chi quel giorno lì inseguiva una sua chimera (ah, forse questa, un altro giorno...)
Commenti, storie e giustificazioni sono benvenute e quindi è con questo spirito che racconto la prima canzone che mi è venuta in mente: è legata ad un innamoramento adolescenziale e all'amicizia di quel periodo. Correva l'anno 1983 ed io trascorrevo l'estate, come tutti gli anni, a Santa Maria di Castellabate. In 3 eravamo "innamorati" della stessa ragazza e lei avrebbe dovuto compiere una scelta. Per natura anche all'epoca evitavo di mettermi in competizione e quindi tra i tre ero quello che non si era fatto avanti; tra l'altro dovevo scendere in Sicilia con i miei... Quando tornai, a fine agosto, la ragazza aveva fatto la sua scelta: non c'ero ovviamente io. La sera, con Luigi, l'altro escluso, bevemmo birra nostalgici e delusi, pensando a quello che sarebbe potuto essere e non era stato. Questa canzone accompagnò gli ultimi giorni di quella estate.


𝗚𝗶𝗼𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗷𝘂𝗸𝗲𝗯𝗼𝘅 - interno notte 2
7 giorni, 7 canzoni della nostra adolescenza bla bla bla. Il gioco mi permette di ripensare a dei momenti del passato lontano, quando ancor sano e snello solea danzare ecc. ecc.. Forse ha ragione Giovanni, ero già pesante da ragazzo, fatto sta che al gioco non posso partecipare se non in questo modo, recuperando pezzi (forse anche distorti dalla lontananza) della mia adolescenza. Sempre grazie a Rosa Maria per il gentilissimo incatenamento, a Maddalena per la fiducia e a Stefania per le canzoni. Risalgo a tre anni indietro rispetto al primo ricordo. Sono sempre stato un solitario con pochi amici. C'erano però, nelle estati al mare, sempre Santa Maria, un gruppo di ragazzi con cui mi accompagnavo sempre in quelle giornate: l'estate era soprattutto gioco, ping pong nel seminterrato di Antonio, calcetto nei campetti affittati o sulla spiaggia, tennis... Uscivamo la sera in gruppo per sentirci forti, quando almeno per me era lontano il pensiero di ragazze o amori, e si andava insieme a piedi in paese parlando di niente, tra schiamazzi e risate. Era l'estate spensierata dei miei 13 anni, delle cartoline spedite, dell'inconsapevolezza e dell'informe interiore che urgeva e chiedeva di uscire. Io non ci facevo caso: con Massimo, Antonio, Renato, Sandro, Roberto, Luigi, passavamo quelle sere a dire cazzate e parlare di sogni lievi. E questa canzone, in me, suscitava le prime pulsioni. Sarà stata la voce delle coriste, non so. Ma anche se ora sorrido, all'epoca sentivo un rossore vergognoso che non sapevo spiegare.






Giuoco del jukebox - Giorno 3 (esterno, ah no, non ci vedo... interno notte)
Ora è vero, Rosa Maria, Maddalena, Stefania, Giovanni che in qualche modo per me le estati erano tutte uguali, sempre Santa Maria, con gli stessi amici di sempre, a fare sempre le stesse cose, ma forse anche questo era il bello a quell'età: sapere che avresti incontrato i vecchi compagni spensierati e che avresti passato tre mesi di sole e mare. E' pur vero però che erano anche anni di cambiamenti prodotti da letture che spingevano ad un cambiamento, quando un senso di fastidio e di noia spingeva ad isolarsi (mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo?), ad un raccoglimento trovato nei libri divorati e che sembravano sapere tutto di te, toccando nel profondo e spingevano a lunghe passeggiate solitarie. E poi alcuni amici già non venivano più, con altri si era creata una distanza, come spesso avviene. Mi piacerebbe dire che le canzoni che accompagnarono quei momenti fossero De André, De Gregori, Bruce Springsteen. Per me, invece, il 1984 è legato a questa canzone. 



𝗚𝗶𝗼𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗷𝘂𝗸𝗲𝗯𝗼𝘅 - esterno (finalmente) giorno 4 (ancora...)
7 giorni, 7 canzoni della nostra adolescenza.
Le canzoni sono legate a ricordi anche minimi, non tanto, quindi, l'ascolto continuo e ripetuto con cuffiette (che non avevo), giradischi (che non avevo), jukebox (di cui ho già detto) o radio (niente radio nella macchina nell'adolescenza, nei lunghi viaggi da Benevento a Santa Maria o a Randazzo in Sicilia passavamo il tempo cantando noi ragazzi canzoni che è meglio tacere...), piuttosto quelle che qualcuno della comitiva canticchiava o ascoltate in spiaggia o nelle serate in paese in qualche bar.
Per cui non prendertela Giovanni se in qualche modo avvaloro le tue teorie su di me, né voi, Rosa Maria, Stefania, Maddalena, dolci amiche di questo gioco, se le mie canzoni non sono al livello dei vostri ricordi. Questa è la mia adolescenza e se sono alla fine diventato così come sono forse qualche ragione c'è anche in queste canzoni, in questi versi altissimi e in queste memorie.
Tutta questa lunga intro per ricordare una canzone del 1981, anche se il ricordo è probabilmente successivo. Bene. La canzone è legata a qualche pomeriggio in macchina con mio fratello e un amico, Massimo, e prevedeva questo tipo di approccio: con la macchina Massimo si avvicinava a qualche ragazza e mio fratello, dal lato passeggero, strimpellando quattro accordi (credo conoscesse solo quelli) con la chitarra, le cantava "Tu cosa fai stasera...". La sensazione mia (anche oggi, lo ammetto) è di profonda vergogna, però non posso non pensare che fosse divertente e comunque non c'è stata mai nessuna violenta risposta da parte delle ragazze, solo qualche sorriso divertito (o forse di commiserazione). La canzone era del mitologico Dario Baldan Bembo, ed era Tu cosa fai stasera




𝗚𝗶𝗼𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗷𝘂𝗸𝗲𝗯𝗼𝘅 - interno giorno 5
7 giorni, 7 canzoni della nostra adolescenza.
Ripensandoci, mi rendo conto che la mia adolescenza è fatta quasi esclusivamente di cantanti italiani. E' proprio così. Erano quelli che ascoltavo, erano quelli che comprendevo e che sembravano "dirmi" qualcosa. l ricordo odierno è legato al cantante che più di tutti ha attraversato infanzia e adolescenza, con le canzoni imparate a memoria e cantate anche con fratelli e sorelle, canzoni che ancora oggi canticchio quando mi prende la vena. Il cantante è Lucio Battisti che ha attraversato quasi intatto gli anni 70, 80, 90. E' difficile, dunque, dire a quale anno le sue canzoni siano legate, quando cantavo tra me Emozioni osservando il tramonto, oppure Questione di cellule (una delle mie preferite) o ancora Umanamente uomo: il sogno (che per me che non sapevo - e non so - fischiare era particolarmente ostica tanto da spingermi al solo la la la...). Però, forse, al di là del primo Battisti, quello che ricordo meglio è l'anno del cambiamento, 1986, quello di Don Giovanni, in cui qualcosa iniziava a cambiare anche per me ed avvenimenti interni ed esterni si univano. D'altra parte, Giovanni, lo sai che per me "son le cose che pensano ed hanno di te sentimento". Strano anche pensare, care ragazze Rosa Maria, Stefania e Maddalena, che di questo album si parlasse in spiaggia nell'estate del 1986, tra partiti opposti di battistiani nostalgici e battistiani moderni. Per cui ecco qui le cose che ti pensano, Gio.



𝗚𝗶𝗼𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗷𝘂𝗸𝗲𝗯𝗼𝘅 - giorno 6
7 giorni, 7 canzoni della nostra adolescenza. Ieri ho saltato, allora chiudo oggi per due. Il primo ricordo è Il pescatore di De André, ma quello della Premiata Forneria Marconi. Gli anni dell'adolescenza al mare erano anche gli anni dei primi falò, prima solo con gli amici più stretti, quelli delle partite a pallone e delle uscite serali, poi con le comitive allargate, in una spiaggia in cui non c'erano ancora lidi, tutta la spiaggia era libera, e non c'erano le luci dei camping che illuminavano a giorno la notte. C'erano le stelle, il nero del mare e il falò che illuminava i visi. E c'era sempre quello bravo a suonare e cantare che portava la chitarra mentre intorno si rideva e si scherzava. La canzone la ricordo in uno di questi falò (forse l'82), tra De Gregori e Battisti, forse anche qualche straniero, ma quelle che cantavano tutti erano di Baglioni, forse di Cocciante. E c'era immancabile anche De André. Come al solito c'è di mezzo una ragazza che mi piaceva, Elisabetta, e come al solito c'era qualcun altro (c'era sempre qualcun altro). Della serata, dopo il falò, ricordo che l'accompagnai alla pensione dove alloggiava, camminando lungo la spiaggia, e lei che parlava dell'altro. Capito Giovanni? E poi il ritorno solitario sotto le stelle a fantasticare non so più bene di che. E questo è Rosa, Stefania, Maddalena. 



𝗚𝗶𝗼𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗷𝘂𝗸𝗲𝗯𝗼𝘅 - giorno 7 (tra interno ed esterno).
7 giorni, 7 canzoni della nostra adolescenza.
Dialogo tra il me di ieri adolescente e il me di oggi, pure un poco adolescente. "Ma Battisti l'hai messo?" "Sì, sì, ho messo Le cose che pensano..." "Eh ma avresti dovuto mettere Questione di cellule, è stata più importante" "Ma una ne dovevo scegliere e comunque l'ho citata in nota..." "E Che devo fare per volare di Gianni Togni?" "No quella no, che poi quella la cantava Claudio, in quelle sere un po' nostalgiche, e comunque mica potevo metterle tutte..." "Allora Baccini? Baccini l'hai messo?" "Ma Baccini è venuto dopo, nell'89, c'era Ti amo e non lo sai, già oltre l'adolescenza" "Però un cenno a Due di Cocciante lo potevi fare" "Mmmm, 1986, uno dei pochi album che mi fu regalato, però l'ho nominato nel post di ieri..." "Pochino, comunque. Almeno Pino Daniele lo avrai messo?" "..." "Non lo hai messo? Ma come diamine si fa? Ma ti ricordi l'estate siciliana del 1982? C'era Bella 'mbriana, che a te all'inizio sembrava significasse bella ubriaca. Facciamo in tempo ad inserirlo?" "No, mi spiace, troppo tardi" "E Giuni Russo? Facciamo in tempo ad inserirla?" "Ah, Giuni Russo, l'avevo quasi dimenticata, Un'estate al mare, ed era sempre l'82 (quante cose quell'anno...), si sentiva questa canzone nell'aria mattutina a tutto volume. E poi Voglio andare ad Alghero. Ricordo che ho fatto due sole richieste di canzoni alle radio private, nel tempo in cui si facevano le dediche alla radio, una era Giuni Russo e l'altra era Settembre di Fortis..." "E stranieri ne hai inseriti?" "Una sola. Però lo sai, quelli importanti sono venuti alcuni anni dopo" "Almeno al maestro Battiato avrai dedicato una scheda, vero?" "Ecco vedi..." "NON HAI DEDICATO UN POST AL MAESTRO BATTIATO?" "Ma lo sai che alcune canzoni non hanno legami con le vicende esterne, Battiato era dedicato all'introspezione interiore, come Summer on a solitary beach oppure L'animale. Non avevo ricordi da condividere... Cosa dovevo scrivere, delle passeggiate solitarie lungo i sentieri? Delle cose scritte in fretta su foglietti volanti? Non è che tutto può diventare un post" "Allora voglio vedere proprio che cosa hai scelto per concludere" "...".
La tendenza a voler comprimere l'universo mondo in una pagina, è probabilmente inevitabile. Il gioco delle scelte e delle esclusioni suscita, non raramente, soprassalti tardivi, indecisioni paralizzanti, rimorsi postumi. Ma questo è un gioco, e lo si può fare.
Una canzone antica, che appartiene al momento che credo di passaggio tra una vita ed un'altra. Una canzone antica per dire di un cambiamento che avveniva. Da lì, tra il 1985 e il 1986, tutto sarebbe cambiato, anche se ne ero, credo, ancora inconsapevole. Altri avvenimenti, personali prima e collettivi poi, mi proiettarono verso un altro me stesso, con idee, gusti, sentimenti che avevano certo le radici nel ragazzo vergognoso e solitario (ed anche un po' sfigato) ma che ora si apriva, anche dolorosamente al mondo, al teatro. La canzone è antica. La registrai insieme ad altre (Tenco, Fontana, Paoli, anche Baglioni, e poi i Procol Harum) su una musicassetta che ascoltavo continuamente.
Grazie agli amici con cui ho condiviso questi 7 giorni, Rosa perché mi ha taggato, Giovanni perché ha pressato per inserirmi, Stefania perché dice sempre qualcosa che tira su, Maddalena perché polemizza amabilmente. Ho un po' barato (non ho taggato nessuno oltre a loro che già partecipavano) però ho giocato con voi.





 (Pubblicato in 7 post, in 7 giorni su Facebook).

martedì 26 maggio 2020

Vicinitudini 3 - riflessione a margine



Tra le esperienze fatte in questi mesi di quarantena forzata, quella di Vicinitudini è stata tra le più importanti e le più belle. Ho iniziato a pensarci dopo i primi 20 giorni di blocco, volevo un momento in cui gli alunni, al di là del tempo scolastico, potessero condividere qualcosa di loro, una frase, un pensiero, un racconto oppure una canzone, un video ma anche restare lì solo ad ascoltare gli altri, per sentire come alcune parole ci accomunassero e ci accompagnassero in quei giorni (che già adesso sembrano così lontani). Sono stati 26 incontri (dal 31 marzo al 20 maggio) divisi tra le due classi III e la I, ognuno diverso, ognuno con uno spunto di riflessione e con la sua dose di passione, lacrime, sorrisi, ognuno da togliere il fiato, lasciando che i pensieri fluissero, tesi all'ascolto dell'altro. 
Un modo per essere vicini oltre la distanza, un modo per superare la solitudine di quei giorni e sentirsi parte di un tutto, di una comunità che prosegue, in altro modo, l'incontro, lo scambio. Un fiorire dal buio dei pensieri e dell'umore, provando ad uscire allo scoperto per ritrovarci attraverso le parole.
Ora che il lungo periodo di chiusura, di clausura è finito, abbiamo anche terminato con i nostri incontri di piccoli gruppi sul far della sera: ora c'è la possibilità di vedere gli amici, i congiunti, di uscire, ed il ruolo ritagliato da quegli incontri non serve più. Di questi due mesi di parole mi restano tante istantanee nella memoria, tante parole difficili da riassumere in poche righe, così come la paura e la gioia, l'ansia e l'improvviso dolore, il sorriso amico, il suono del piano, della chitarra, del silenzio.

Apocalittici e integrati


Stiamo fingendo che vada tutto bene, che tutto tornerà come prima, che la paura del contagio non ci sarà più, che torneremo a respirare un'aria buona senza mascherina, che saremo tutti senza maschera e, anzi, che la nostra attenzione, agli altri, al pianeta, al lavoro, alla scuola, alla famiglia, ai più deboli aumenterà, perché così deve essere, perché ci siamo resi conto in questi mesi che la società così com'era faceva schifo, perché ci siamo accorti che i nostri rapporti umani erano fasulli, perché ci siamo accorti che il capitalismo, col suo insistere su merci e produzione, individualismo e successo personale ad ogni costo, ci ha strappati via a noi stessi, rendendoci anonimi ed alienati.
Ma è una bugia. Non vediamo l'ora di tornare al modello di produzione distruttivo dell'ambiente e dell'uomo, al capitalismo sfrenato e senza regole, al calpestare diritti e umanità, all'anonimia mercificata delle persone.
Il tempo presente non è che lo specchio di ciò che siamo diventati: distanti e violenti, superficiali e dipendenti. E stiamo creando una separazione anche maggiore tra chi può permettersi le tecnologie più avanzate e chi resta indietro, tra chi può comandare e chi non ha niente e deve sottostare al ricatto del salario minimo per poter sopravvivere e alla derisione dei diritti. Questo tempo non sta annullando le differenze, le sta accentuando. Prendiamo ad esempio la scuola e vediamo come anche in questo periodo si siano perpetuate le differenze tra chi ha difficoltà o non ha strumenti per connettersi e chi può, tra chi in 5 deve destreggiarsi tra smart working e lezioni con uno smartphone e un computer e chi ha due telefoni e due computer solo per sé.
No, non andrà tutto bene se non saremo in grado di cambiare nel profondo, cambiare mentalità, stile di vita, essere. Il tempo rinnovato, il tempo liberato non si attuerà se perpetuiamo in modo diverso ma con gli stessi intenti i riti stantii e mortiferi di modelli passati. Le donne e i bambini continuano ad essere gli "oggetti" fragili, spezzati sull'altare del nostro dio, ego, forza, denaro, accumulo, successo... 
Siamo oggetti. E la fragilità che il virus ha evidenziato, e che avrebbe dovuto portarci ad un paradigma sociale diverso, è servita solo a dividere e allontanare ulteriormente, a mostrare le crepe del nostro mondo, che si sono allargate ma non ci hanno spinti alla solidarietà dei muratori che lavorano insieme per costruire ponti. Dalle crepe sono cresciuti muri.

mercoledì 13 maggio 2020

Io nella capanna


Non sono ancora entrato nella fase 2. Non ci riesco. I pensieri sono aggrovigliati, girano in tondo, sono preda della sindrome della capanna, resto dentro me stesso, il fuori c'è ma distante. Lo guardo dal balcone dei miei pensieri, spettatore apatico e turbato costretto a fare i conti con passato e futuro. Il presente è il tempo dell'attesa.
Io aspetto, teso all'ascolto, col fiato sospeso. Aspetto in apnea, rallentando il respiro, lo sguardo fisso a terra. Aspetto guardandomi allo specchio, nel male che fa riconoscersi diverso da quello che si credeva, nel ferirsi col vetro che riflette l'immagine logica di te, solo di te.
Nel chiuso della camera posso ritrovare con calma gli oggetti, il libro, la penna, il quaderno; posso ritrovare le foto che mi accompagnano, le parole che mi scrivono, i visi nel pozzo della memoria recisi da prenotazioni e coincidenze, ritrovati in un altro tempo, da un altro io.
Io chi, poi? Quale io? Quello che parla e scrive o quello che lo osserva fare? Quello che ha vissuto quel tempo, quello che ne ha scritto ieri o quello che lo recupera oggi? Di quale io sto parlando? Chi sono io? Sono la somma di tutti quei momenti, di tutti quei passaggi, spesso dolorosi, che hanno fatto da gradino a chi sono oggi, a chi sarò domani.
Ma intanto continuo a rimanere in questa capanna tranquilla e calda, continuo a non andare "fuori fase", continuo ad aspettare qualcosa, qualcuno... Io nella capanna.  

domenica 10 maggio 2020

Le parole dell'amore


Bisognerebbe registrarle le parole dell'amore, quelle tenere scambiate mentre si è abbracciati, ad occhi chiusi, a sentire il respiro ed il sussurro del cuore. Le parole di fianco, spezzate dalla tenerezza che sale, a raccontare, a raccontarsi. Bisognerebbe registrale per risentirle quando il tempo è brutto e c'è il temporale nel cuore, quando sei solo anche se con altri, quando sei distante e la persona amata manca per mille ragioni. Ma si dovrebbero risentire anche per ricordarsi com'era, cosa ci faceva battere il cuore, cosa è cambiato e perché, o se è cambiato davvero. 
Bisognerebbe ricordare le parole dell'amore quando il nostro centro è sfocato e perdiamo di vista le cose importanti, e giriamo in tondo intorno ad altre parole, dimentichi di noi, dell'altro.
Bisognerebbe scriverle le parole dell'amore, quando si è di due uno solo, appuntarle in un angolo della mente e del cuore, per scaldarsi al loro fuoco quando ci prende la tristezza o la paura dell'abbandono, o, ancora, la paura di poter cessare di esistere senza aver fatto comprendere a chi ci è a fianco quanto sia importante. 

martedì 5 maggio 2020

Fase 2


Ieri non sono uscito. Sono usciti i miei figli (tutti e tre), mia moglie, tantissimi potentini (dal balcone ho visto un via vai come non lo vedevo da marzo) a piedi, in gruppo, in macchina, con gli animali, di corsa, in bici.
Ieri non sono uscito, non perché non ne avessi voglia o fossi stanco (di che, poi) ma perché non mi piace questa sorta di "tana, libera tutti" o "tingola per me e per tutti", in cui tutti escono riprendendo a fare, come se nulla fosse accaduto, quello che facevano prima della quarantena. Capisco il bisogno di libertà, capisco il desiderio di normalità, ma ci sono stati morti, malati, che non possono essere dimenticati. Troppo presto e troppo spesso dimentichiamo il passato (anche quello recente) e se questo tempo diverso non ci ha insegnato nulla, a niente saranno valse quelle morti.
Cosa dovrebbero averci insegnato? Il rispetto e l'attenzione, innanzitutto, di noi stessi e degli altri, di un albero e di un animale. La cura delle cose che ci circondano, che sono fragili, anche degli oggetti che possono avere una vita più lunga di quella che abitualmente assegniamo loro. Una economia non dell'uso e dell'abuso, invece solidale, attenta.
Il cambiamento interiore auspicato, quello di un tempo liberato, tutte le utopie immaginate, tutto il lavoro svolto da tanti, tutto questo sarà stato inutile.
Se tutto tornerà come prima a nulla saranno valsi i sacrifici, le sofferenze, le belle parole. 

lunedì 4 maggio 2020

Diario ai tempi del Coronavirus (2-3 maggio)

02.05.2020

h. 23:52
Prima poi dovremo fare i conti con la paura e con il totale menefreghismo, tra chi dopo una prima fase ha deciso che era tutto un gioco e che comunque i giovani non sarebbero stati colpiti, che i vecchi avevano vissuto abbastanza ed avevano gli anticorpi, che gli allergici no, non sono a rischio, ed ha continuato ad uscire - ancor di più ora -, e chi ha vissuto e vive nella paura del contagio, chiuso in casa e attento a pulire ogni oggetto che sia venuto a contatto con l'esterno.
Me ne rendo ancora conto uscendo a fare la spesa; chi usa la mascherina anche per strada da solo e guarda con circospetta paura ogni persona che si avvicina a tre metri di distanza e chi invece bellamente procede senza protezioni guardandosi intorno con aria spavalda.
Io vivo in bilico tra le due categorie, come molti, credo. Tra la paura e la stanchezza dell'isolamento, tra il timore che, se contagiato, potrei contagiare gli altri, e la necessità di una vicinanza vera. E forse ha ragione Anders quando scrive che il difetto fondamentale dei nostri giorni è «la nostra incapacità di immaginarci tutto ciò che possiamo produrre e tutti i guai che possiamo combinare».
Immaginare: la più grande delle qualità umane è anche la più rischiosa. Sì, forse l'immaginazione deve essere sempre accompagnata dalla gioia e dalla paura di ciò che si può sognare, realizzare.


03.05.2020



15:02
Sono passati due mesi dal 4 marzo, quando con un decreto presidenziale il governo annunciava, tra le misure valide sull'intero territorio nazionale, la sospensione delle attività didattiche in tutte le scuole. Seguivano i decreti dell'8 marzo (con misure differenti nelle diverse Regioni) e quello dell'11 che estendeva le misure restrittive a tutto il territorio nazionale. Il mio diario inizia dall'11 ma la mia quarantena inizia dal 4. Ecco. Sono passati due mesi e oggi abbiamo festeggiato. Mia moglie ha preparato una torta e abbiamo fatto una foto tutti insieme (come non ne facevamo da tempo, nemmeno per il mio compleanno a febbraio e quello di Giulio a marzo l'avevamo fatta...). Abbiamo festeggiato la fine della fase 1 e un nuovo inizio. O forse soltanto la gioia di ritrovarci insieme dopo due mesi di grida, timori, videolezioni, solitudini sotto lo stesso tetto...
Non so se da domani cambierà qualcosa, non credo. Forse cambierà solo la nostra percezione del mondo esterno nel lento avvicinamento ad una quotidianità di incontri senza maschera, nel passaggio tra un prima e un dopo. Nelle tante fasi 2 della nostra vita che abbiamo attraversato, dopo una fase 1 fatta di perdita, dolore, paura, speranza, c'è sempre un momento di attesa, di sospensione del respiro, di nuove possibilità che si aprono o che speriamo. Delle tante fasi 1 che ho attraversato ricordo soprattutto quelle dolorose, quelle legate ad una morte innanzitutto, quelle delle lacrime inconsolabili, della paura del dopo. Ma ci sono state anche quelle fasi incerte dopo l'Università o l'inizio del lavoro, piene di sogni e speranze. Dopo le lacrime, dopo il limbo dell'incertezza, dopo l'accettazione c'è il momento del nuovo inizio, con tutta la voglia, l'incoscienza e la pazzia del nuovo che ci aspetta. Aprirsi a questo nuovo è forse il compito che ci aspetta.




(Testi pubblicati, con modifiche, su Cronache di una pandemia, in Totem magazinehttps://www.totemmagazine.it/)

sabato 2 maggio 2020

Diario ai tempi del Coronavirus (29 aprile - 1 maggio)


29 aprile 2020 h. 10:40

L’azzeramento dei contagi ha fatto anticipare in città la fase 2 prevista dal 4 maggio. Me ne accorgo oggi uscendo a fare servizi alle 9:00. Tantissima gente per via Pretoria, chi butta la spazzatura, chi fa la spesa (in fila, in modo ordinato), ma anche chi passeggia soltanto con a fianco un amico. Quasi tutti hanno le mascherine, ma gli sguardi sono aperti, meno preoccupati di conseguenze pericolose, si intravede un sospiro di sollievo nascosto. La lunga quarantena, iniziata l’11 marzo, sembra allentarsi, sembra dare spazio di libertà al movimento, al tempo inutile della chiacchiera, al respiro sottratto al chiuso della casa, all’incontro anche se a distanza.

Io intanto faccio i miei servizi (spazzatura, spesa) e torno a casa. Continuo ad evitare l’ascensore: per salire e scendere faccio i 6 piani di scale, unico esercizio concesso in questo lungo tempo immobile. Oggi lo faccio due volte, devo ancora andare in garage a prendere la spesa che mia moglie lascia quando va a fare la scorta con la macchina al supermercato. Ne approfitto per percorrere il ponte di Montereale: il vento è liberatore, annuncia la solita primavera ritardata potentina, libera i polmoni, scompiglia i capelli, agita gli alberi. La natura afferma la sua presenza, il suo esserci al di là di noi. L’erba alta del parco ne è una prova, i fiori cresciuti senza essere calpestati un’altra.



In tutto sono stato fuori un’ora, ad assaporare questo tempo nuovo che sembra annunciarsi.


30.04.2020 h. 23:59


Dal 9 marzo. ultima volta in cui aveva fatto una passeggiata, mio figlio Giulio non era mai uscito. Oggi ha chiesto di scender giù nel portone. Se anche lui inizia, dopo più di 50 giorni in casa senza mai chiedere nemmeno di uscire fuori dalla porta, a chiedere di uscire, vuol dire due cose: che non ce la fa più e che, forse, anche la percezione intorno al virus sta cambiando.
In casa aspettiamo due cose: la nuova ordinanza sugli Esami di Stato, che forse finalmente metterà un punto fermo su modalità di svolgimento e punteggi, ed il 4 maggio, non tanto per il "libera tutti", quanto per vedere come cambierà l'umore, qui in casa e fuori. 
Forse sta arrivando il momento di tagliarsi la barba.


01.05.2020 h. 19:44


Solo domande in questo primo maggio. Sul lavoro, sulla politica, sulla scuola, sull’uomo. La fragilità del sistema economico manifestatasi col coronavirus ci deve costringere a ripensare sia le nostre priorità che lo stesso modello lavoro verso il quale ci siamo indirizzati. Troppo presi dal fare ci siamo scordati del nostro essere nel mondo, dell’attenzione da dare all’ambiente e a noi stessi, il fare ha occupato tutti i nostri pensieri rendendoci dimentichi di tutto il resto. D’altra parte la passione smodata per il tecnologico, la merce, l’industrializzazione, gli oggetti, ci ha fatto perdere di vista il corpo, la foglia, lo sguardo. L’altro. Pensare l’altro. Avere sempre come riferimento il rapporto con l’altro. Perché ciò che facciamo ha un peso, conta.

«La pluralità è il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà» (Hannah Arendt, Vita activa)

Ripensare il lavoro per non diventarne schiavi e puntare sulla scuola come luogo non sottomettibile al mercato (anche se in questi anni hanno tentato di mercificarla la scuola). Quale scuola poi? Quale scuola dopo questi giorni dietro gli schermi? Questi giorni senza corpi? Una scuola che sia passione dei nostri corpi e dei nostri sguardi, delle parole vissute e incarnate nell’agire, pieni anche di quel silenzio che in questi giorni ci fa disperare, ancora pieni di dubbi, di paure, di domande, pieni del rimpianto di un anno non finito, senza quella scuola, la scuola, senza quei riti che non sono solo scena ma sostanza della nostra scuola, dell’essere studenti ed insegnanti, mani e banchi, ricreazione e chiacchiera, pieni ora di dolore perché non ci sarà l’ultimo giorno, la sfilata, la frase sullo striscione, l’ultima versione, la mattinata dell’ultimo giorno, il pranzo insieme, la notte prima degli esami, la corsa al banco per gli scritti…

«La scuola riaprirà. Non subito, ma presto. E allora cerchiamo di rifarla, questa scuola, non di ripartire come se non fosse successo niente ma di re-inventare. Proviamo a riempire ancora le aule di parole e suoni, ma che siano di tono e volume diverso. Portiamo dentro la scuola la nostra passione, la nostra energia, la voglia di stare fisicamente coi ragazzi, di spettinarli, di farci prendere in giro per l’inizio della calvizie o per la borsetta nuova. Riportiamo nelle nostre classi la vita, il respiro, la saliva, il sudore, tutto, letteralmente tutto quello che la nostra precaria e meravigliosa esistenza ci regala. Tutto, tranne questo silenzio». (R. Mantegazza, La scuola dopo il coronavirus).


(Testi pubblicati, con modifiche, su Cronache di una pandemia, in Totem magazinehttps://www.totemmagazine.it/)