domenica 27 agosto 2017

Di calcio, di stelle e di altre amenità

Non sono mai stato un grande tifoso di calcio, le mie passioni sono sempre state altre. Non ho il cuore pulsante per una squadra, la voglio dello sfottò contro i tifosi avversari, il grido per un goal o le lacrime per la sconfitta. L’ho sempre considerato un gioco, il calcio, un bel gioco da fare in mezzo alla strada o su qualche campetto (fino a che ne ho avuto la voglia) e magari anche da vedere (ma sempre in modo molto parco).
Eppure anch’io, nell’età in cui i miei compagni sceglievano la squadra del cuore, ho avuto una squadra, anzi due. Tutto iniziò per un album Panini, tutti facevano l’album Panini, tutti si scambiavano le figurine o si sfidavano: col soffio o con lo “schiaffo” per farle girare. A me piaceva una maglia a righe bianche e rosse, era la maglia del Lanerossi Vicenza. Non ricordo bene come decisi di tifare per il Vicenza, forse perché mi piaceva il nome di un giocatore, Cinesinho, che c’era sull’album insieme ad una sua immagine. E poi mi incuriosiva il nome della squadra, Lanerossi…




 Non l’avevo mai visto giocare Cinesinho, ma mi piaceva il nome legato a quel viso, che permetteva di inventare storie. Poi per quella squadra giocò anche Paolo Rossi, proprio nell’età in cui, 10 anni, è più forte rispecchiarsi nelle favole calcistiche che ogni tanto accadono. Quando Rossi lasciò il Vicenza (finito in B) abbandonai anch’io il “tifo” per quella squadra.
Mio padre, anche lui poco interessato al calcio, era di Napoli e forse per questo o piuttosto perché comprava il Mattino e la pagina dello sport era sempre dedicata al calcio Napoli iniziai a tifare Napoli. Di quella squadra mi piaceva Bruscolotti, un terzino di quelli asfissianti, insuperabili marcatori e poi Ruud Krol, il libero olandese.



Questo fino all’arrivo di Maradona. Con lui, complice anche il fatto che ero all’Università a Napoli, ho davvero respirato dal vivo il clima del tifo, il senso del riscatto di una città, l’appartenenza ad una squadra e al sud. Il primo scudetto fu un’orgia di colori e suoni, a cui partecipai girando per la città impazzita. Ma questa è un’altra storia. Finito quel momento finì anche quella momentanea passione. Neanche il secondo scudetto scalfì la fine dell’amore per il calcio. 
Oggi mi piace leggerne, vedere qualche partita, ma non mi esalta più. Mi ha fatto piacere sapere del Benevento in serie A, della vittoria del Napoli sul Nizza, mi è dispiaciuto per la sconfitta della Juve nella finale di Champion, ma nulla più.

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Un grido. Improvviso. Nella notte. Era stato questo a svegliarmi, ne ero quasi sicuro. La sveglia sul comodino segnava le 2.47 ed io avevo gli occhi spalancati, un senso di oppressione nel petto e, negli occhi, l’immagine nitida di qualcuno in pericolo. Delia dormiva quieta al mio fianco.
Forse però non era niente, se non il senso di una giornata perduta dietro social, al computer, nella penombra della stanza…. Tutto è fagocitato dal biopotere, non c’è più spazio per la singolarità, domina il profilo… Ripetevo questo, come un mantra, mentre lieve tornava il sonno, senza sogni.

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10 agosto 2017. Non ci sono più zone d’ombra da cui guardare il cielo. La spiaggia è tutta illuminata dai fari dei villaggi. Qualche rara stella fa capolino, supera l’indifferenza, la luce dei cellulari, il divertimento a tutti i costi dell’animazione.
Gli sguardi sono rivolti verso il basso, cercano un’app che faccia vedere le stelle cadenti dal telefonino, senza bisogno dell’attesa, del silenzio, dello stupore di quell’improvvisa scia, di altri desideri, di un altro tempo. Davvero è un tempo de sidera, mancante di stelle.
Sarà che avevo 18 anni e le stelle che ho visto cadere – con i desideri espressi in quei giorni - non potranno più attraversare il cielo, sarà che ho 50 anni e più della metà della mia vita è rivolta al passato, però tutti quei 10 agosto, quelle strette di mano, i pensieri a valanga sul futuro, la sabbia fredda, il buio, il perdersi nella ragnatela di stelle, i sogni, la pietra sotto la schiena, i sorrisi, lo stupore, le magre parole sono un mare di fronte allo spreco di questo giorno, di questa notte in cui cerco un angolo di buio e silenzio… e non lo trovo.



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La ferita al piede costringe a modificare il passo, a seguire non l’onda dei pensieri che spinge al ritmo incalzante dell’ora, ma il corpo che chiede di rallentare, di non bruciare la strada, di essere lieve nel cammino, trovando pause, attese. È un cambiamento del pensiero che non corre più avanti ma si sofferma sulle cose, sul percorso fatto e su quello da fare, su ciò che è sospeso, fragile e basta un soffio di vento per farlo cadere. Il respiro si allarga, lo sguardo si apre al mondo.

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Il corpo partecipa al pensiero. Gli odori, i colori, le sensazioni situate in un luogo. È memoria sensoriale che ci forma. Il corpo conosce e scolpisce il nostro cervello. Così desideriamo un paesaggio, quel paesaggio, fatto dei nostri ricordi, del vento che le scompigliava i capelli, della mano stretta, di quelle parole.



sabato 26 agosto 2017

Montereale

Il 25 agosto 2016, dopo la comunicazione del Comune di Potenza del 23, (vedi qui http://www.comune.potenza.it/?p=17499) il ponte di Montereale veniva chiuso al traffico. Ancora per qualche giorno rimase aperto il passaggio pedonale prima della definitiva chiusura.



È passato un anno. Tra soste e ripresa lavori, con 80 giorni ancora previsti prima della ultimazione definitiva dei lavori e (si spera) della riapertura del ponte, la situazione ad oggi è questa.



Rispetto al progetto mancherebbe quindi lo smontaggio degli ultimi pezzi dell’impalcato, la realizzazione del nuovo impalcato e alcuni interventi sui pilastri (dopo che è già stato effettuato il loro rafforzamento alla base).



In un anno sono state notevoli le difficoltà degli abitanti del quartiere, con cambi improvvisi di viabilità, chiusura anche dei passaggi pedonali e spesso comunicazione non adeguata.

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9 agosto 2012, cinque anni fa. Il parco nelle nostre mani. Era l’inizio dell’avventura di ADM – PAZ e delle tante domeniche (e non solo) passate ad occuparsi del parco. Era l’inizio degli eventi, dei giardini, delle poesie, dei giochi… (http://monterealelab.altervista.org/).
A cinque anni di distanza c’è molta stanchezza perché non c’è stato un ricambio, perché alla fine quei pochi folli che c’erano all’inizio non sono aumentati (anzi forse qualcuno si è perduto per via). Ma anche se l’avventura dovesse finire oggi la considererei positiva, per aver risvegliato interesse intorno al parco, per averlo incominciato a ripensare, per essere stati in qualche modo seminali per tante altre iniziative.
Ed è forse anche piccolo merito dei PAZ l’attenzione dell’Amministrazione comunale al parco con la destinazione di 300.000 euro per un intervento (previsto dal PO FESR Basilicata 2014-2020) per la tutela e la valorizzazione del parco. Sì, è una buona notizia l’approvazione dell’Investimento Territoriale Integrato di Sviluppo Urbano della Città di Potenza perché consentirà di continuare l’opera di restauro ambientale messa in atto da ADM e di intervenire su quelle criticità che abbiamo messo in rilievo in questi anni.
Finché le forze e la voglia rimarranno noi continueremo, fedeli ai nostri inizi, all'idea della cura e del rispetto dei beni pubblici, alla bellezza nella semplicità, all'inclusione e all'incontro.





giovedì 24 agosto 2017

For every day




Hai lasciato di te le parole
e poco altro, una foto
in cui sorridi, un rimpianto
che non smette, ed ogni volta
è lo stesso dolore, la pena nel cuore.

Amleto + Die Fortinbrasmaschine



Lo so. Sono un passatista, uno a cui piace il teatro nel quale il silenzio e il buio permettono il derdersi della vista e dell’udito. Ma nell’età dell’homo videns e dei social anche il teatro ha perduto la sua aura sacrale. Il mistero della parola che risuona improvvisa, i silenzi carichi di attesa. C’è uno spettacolo nello spettacolo, fatto di luci che si accendono nel buio, di whatsappiani che chattano e non sanno fare a meno, neppure in quell’ora, di rispondere all’amico, all’amante; di internauti che continuano a navigare, di parlatori seriali che rivolgono domande al vicino o che ripetono le battute del testo che conoscono, e le proseguono anche, di fotografi incalliti che anziché gustarsi con gli occhi ciò che accade mettono un filtro alle loro emozioni e cercano di fissarle 1, 2, 10 volte, con luci di flash che esplodono e rumori di otturatori che si chiudono.

E allora, forse, il mio giudizio sull’Amleto di Fortebraccio è segnato anche da questa mia impossibilità a perdermi nello spettacolo, ad emozionarmi completamente.
Intendiamoci: bellissima la scenotecnica, la struttura luminosa circolare che di volta in volta funge da campana, prigione, cielo, quinta, orizzonte di Amleto/Amletmaschine; stupendi i giochi di luce, il lavoro sulla voce a cui Latini ci ha abituati, con i microfoni diversi per le diverse voci; le strutture metalliche a rappresentare personaggi della tragedia e a rimandare al presente, ma… ma c’è qualcosa di freddo in tutto questo, un’unione incompiuta, forse voluta, forse no. È che nella messa in scena il discorso complessivo sembra venir meno, spezzettato in tanti quadri. Certo, c’è il riferimento all’oggi, alla frantumazione dell’individuo, all’impossibile unità dell’io scisso tra bene e male, tra essere e non essere. Ma a volte Latini gigioneggia troppo, nei suoi richiami a Bene, Eduardo, lo stesso Muller da cui è partito per la sua riscrittura.

Chi è Amleto? Che cosa ha ancora da dirci? La sua tragedia è tutta appartenente al passato o si è portato, nel morire, qualcosa che riguarda il nostro presente, il nostro futuro? I “classici”, insomma, hanno ancora diritto di parola?
La risposta per me è ovviamente s^. Amleto è il noi di oggi, ammutolito e circondato da voci e suoni che lo separano da sé. Le parole, che avevano senso allora, hanno perso di significato. Il ripeterle, uguali a quelle del testo, mostra il loro essere divenute vuote. La commedia, che si unisce alla tragedia, serve proprio a relativizzarle, a farle perdere nel blabla (con cui si conclude l’opera), nella chiacchiera quotidiana.
Tutto il senso della tragedia di Amleto, delle morti (del padre, di Ofelia, della madre, di Laerte, di Polonio di Amleto stesso e, ancora, di Polidoro, Andromaca, Cassandra, Agamennone), dell’amore, della vendetta, non c’è più, è perso come “lacrime nella pioggia”, it’s time to die.

Cosa resta dunque alla fine? La parola che ci dice, quella che sopravvive alla chiacchiera e ci dà senso, l’umano che permane al tecnologico, la memoria degli assenti senza i quali nulla sarebbe e avrebbe senso.