Non
sono mai stato un grande tifoso di calcio, le mie passioni sono
sempre state altre. Non ho il cuore pulsante per una squadra, la
voglio dello sfottò contro i tifosi avversari, il grido per un goal
o le lacrime per la sconfitta. L’ho sempre considerato un gioco, il
calcio, un bel gioco da fare in mezzo alla strada o su qualche
campetto (fino a che ne ho avuto la voglia) e magari anche da vedere
(ma sempre in modo molto parco).
Eppure
anch’io, nell’età in cui i miei compagni sceglievano la squadra
del cuore, ho avuto una squadra, anzi due. Tutto iniziò per un album
Panini, tutti facevano l’album Panini, tutti si scambiavano le
figurine o si sfidavano: col soffio o con lo “schiaffo” per farle
girare. A me piaceva una maglia a righe bianche e rosse, era la
maglia del Lanerossi Vicenza. Non ricordo bene come decisi di tifare
per il Vicenza, forse perché mi piaceva il nome di un giocatore,
Cinesinho, che c’era sull’album insieme ad una sua immagine. E
poi mi incuriosiva il nome della squadra, Lanerossi…
Non l’avevo
mai visto giocare Cinesinho, ma mi piaceva il nome legato a quel
viso, che permetteva di inventare storie. Poi per quella squadra
giocò anche Paolo Rossi, proprio nell’età in cui, 10 anni, è più
forte rispecchiarsi nelle favole calcistiche che ogni tanto accadono.
Quando Rossi lasciò il Vicenza (finito in B) abbandonai anch’io il
“tifo” per quella squadra.
Mio
padre, anche lui poco interessato al calcio, era di Napoli e forse
per questo o piuttosto perché comprava il Mattino e la pagina dello
sport era sempre dedicata al calcio Napoli iniziai a tifare Napoli.
Di quella squadra mi piaceva Bruscolotti, un terzino di quelli
asfissianti, insuperabili marcatori e poi Ruud Krol, il libero
olandese.
Questo fino all’arrivo di Maradona. Con lui, complice anche il fatto che ero all’Università a Napoli, ho davvero respirato dal vivo il clima del tifo, il senso del riscatto di una città, l’appartenenza ad una squadra e al sud. Il primo scudetto fu un’orgia di colori e suoni, a cui partecipai girando per la città impazzita. Ma questa è un’altra storia. Finito quel momento finì anche quella momentanea passione. Neanche il secondo scudetto scalfì la fine dell’amore per il calcio.
Questo fino all’arrivo di Maradona. Con lui, complice anche il fatto che ero all’Università a Napoli, ho davvero respirato dal vivo il clima del tifo, il senso del riscatto di una città, l’appartenenza ad una squadra e al sud. Il primo scudetto fu un’orgia di colori e suoni, a cui partecipai girando per la città impazzita. Ma questa è un’altra storia. Finito quel momento finì anche quella momentanea passione. Neanche il secondo scudetto scalfì la fine dell’amore per il calcio.
Oggi mi piace leggerne, vedere qualche partita, ma non mi esalta più. Mi ha fatto piacere sapere del Benevento in serie A, della vittoria del Napoli sul Nizza, mi è dispiaciuto per la sconfitta della Juve nella finale di Champion, ma nulla più.
*
* *
Un
grido. Improvviso. Nella notte. Era stato questo a svegliarmi, ne ero
quasi sicuro. La sveglia sul comodino segnava le 2.47 ed io avevo gli
occhi spalancati, un senso di oppressione nel petto e, negli occhi,
l’immagine nitida di qualcuno in pericolo. Delia dormiva quieta al
mio fianco.
Forse
però non era niente, se non il senso di una giornata perduta dietro
social, al computer, nella penombra della stanza…. Tutto è
fagocitato dal biopotere, non c’è più spazio per la singolarità,
domina il profilo… Ripetevo questo, come un mantra, mentre lieve
tornava il sonno, senza sogni.
*
* *
10
agosto 2017. Non ci sono più zone d’ombra da cui guardare il
cielo. La spiaggia è tutta illuminata dai fari dei villaggi. Qualche
rara stella fa capolino, supera l’indifferenza, la luce dei
cellulari, il divertimento a tutti i costi dell’animazione.
Gli
sguardi sono rivolti verso il basso, cercano un’app che faccia
vedere le stelle cadenti dal telefonino, senza bisogno dell’attesa,
del silenzio, dello stupore di quell’improvvisa scia, di altri
desideri, di un altro tempo. Davvero è un tempo de sidera,
mancante di stelle.
Sarà
che avevo 18 anni e le stelle che ho visto cadere – con i desideri
espressi in quei giorni - non potranno più attraversare il cielo,
sarà che ho 50 anni e più della metà della mia vita è rivolta al
passato, però tutti quei 10 agosto, quelle strette di mano, i
pensieri a valanga sul futuro, la sabbia fredda, il buio, il perdersi
nella ragnatela di stelle, i sogni, la pietra sotto la schiena, i
sorrisi, lo stupore, le magre parole sono un mare di fronte allo
spreco di questo giorno, di questa notte in cui cerco un angolo di
buio e silenzio… e non lo trovo.
*
* *
La
ferita al piede costringe a modificare il passo, a seguire non l’onda
dei pensieri che spinge al ritmo incalzante dell’ora, ma il corpo
che chiede di rallentare, di non bruciare la strada, di essere lieve
nel cammino, trovando pause, attese. È un cambiamento del pensiero
che non corre più avanti ma si sofferma sulle cose, sul percorso
fatto e su quello da fare, su ciò che è sospeso, fragile e basta un
soffio di vento per farlo cadere. Il respiro si allarga, lo sguardo
si apre al mondo.
*
* *
Il
corpo partecipa al pensiero. Gli odori, i colori, le sensazioni
situate in un luogo. È memoria sensoriale che ci forma. Il corpo
conosce e scolpisce il nostro cervello. Così desideriamo un
paesaggio, quel
paesaggio, fatto dei nostri ricordi, del
vento che le scompigliava i capelli, della mano stretta, di quelle
parole.