lunedì 26 settembre 2022

Tutto brucia


 «Ecuba esce. Vuoto».

Con queste parole si conclude Tutto brucia dei Motus, con l'uscita di scena di Silvia Calderoni (Ecuba), il buio sempre più fitto che cala sul palco ricoperto di cenere e resti indistinti di cose e corpi, mentre un rumore sempre più forte ferisce le orecchie.

Non c'è luce nello spettacolo, non c'è speranza di un futuro diverso. Tutto brucia. Tutto è vuoto.
Una umanità distorta, disarticolata, metamorfica, animalizzata è quella che c'è stata sulla scena. Donne-animali, donne-burattini spezzate dalla violenza, stuprate, assassinate, bruciate, ridotte a schiave, prostitute, resti di una umanità sepolta e perduta.

Le parole de Le Troiane di Euripide, da cui la drammaturgia dei Motus prende vita, ci sono ancora, ma anch'esse sono brandelli, sommerse dai rumori, dal grido gutturale a cui sono ridotte le parole, latrato, verso stridulo di uccello.

Non c'è luce, se non quella delle torce, il fuoco che ha ridotto tutto in cenere e che continua ad ardere, finché della città non rimarrà più nulla. Resta il canto, qui rappresentato dalla sola R.Y.F. (Francesca Morello), che canta e suona sulla scena, e che, come nell'antico coro greco, rappresenta il punto di vista della collettività rimasta che commenta e che, forse, dovrebbe dare un ordine alle cose. Ma le cose non hanno più senso.

Balenano sciagure. Non solo quelle del presente, ma anche quelle di un livido futuro, come annunciato dalla invasata Cassandra (Stefania Tansini). Le Troiane non portano ordine, non mettono un freno all'orrore della guerra, annunciano invece altre tragedie. Così lo spettacolo. Annuncia mutazioni di queste donne in schiave derelitte (e le annuncia un'Ecuba già non più donna, trasformata in viso da una maschera e nella voce). E le mutazioni non annunciano speranza, visto che saranno animali (Ecuba in cagna), cose (Niobe in roccia).

Tutto brucia. Lo spettacolo, nato durante il momento più feroce della pandemia, rende ragione, attraverso questo rimando, della sua oscurità, se pensiamo all'orrore di quei giorni, i morti, la solitudine, il silenzio. È uno sguardo desolato sull'oggi, sulle cupe vampe della nostra crisi, sulla guerra senza vincitori, solo con vinti.

Il canto limpido di R.Y.F. smette lasciando campo al rumore degli ultimi crolli e al silenzio; i movimenti armoniosi di Stefania Tansini si spezzano nella disarticolazione delle giunture, nei movimenti sincopati, infine nella rigidità della morte; la voce appassionata di Silvia Calderoni diventa grido, metallo lacerante, silenzio.

Fuoco, fumo, rumori. La condanna di una storia fatta di violenza, guerra, orrore. Condanna senza più voce di un presente oscuro. 

Tutto brucia. Il futuro? Forse dalla cenere potrà nascere qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo e luminoso. Forse.


Visto il 23 settembre 2022 al teatro Stabile di Potenza nell'ambito del Festival Città 100 scale.

Manifesto transpofágico


 Il tema è importante, attuale, quasi vitale oggi, ma il modo in cui lo spettacolo si sviluppa, confesso che mi ha infastidito.

L'attrice Renata Carvalho nuda sul palco ha un senso, come la sua storia di travesti, storia di affermazione di identità, di dolore, lotta, vita. E non nego che anche il dibattito in sala col pubblico, quando le luci si accendono, possa diventare atto politico. Ma quel girare nuda per la sala? Chiedere agli spettatori se vogliono toccare i glutei o il seno? Che senso ha? Non è un modo ulteriore, ancora, di mercificare il corpo? Non è ancora mettere al centro del discorso l'oggetto e non il soggetto e la sua identità? L'affermazione dei valori, la presa di coscienza, le riflessioni devono necessariamente passare attraverso quello che quotidianamente fa la nostra società dei consumi? Il corpo delle donne e delle travesti sbattuto in primo piano?  

Io non credo.


Visto il 20 settembre 2022 al Teatro Stabile di potenza nell'ambito del Festival Città 100 Scale.

lunedì 12 settembre 2022

The mountain

 



C’è una poetica chiara dietro il lavoro di Agrupación Señor Serrano, una poetica che si lega alla loro estetica, alla ricerca di unire parole, immagini, oggetti, video, recitazione, gesti; c’è una chiara volontà non di stupire a tutti i costi lo spettatore, ma di inseguire la propria idea di teatro, con l’idea di raccontare il presente con gli strumenti del presente.

Avevo avuto già modo di vedere il gruppo nel 2017 con lo spettacolo Birdie, e di ascoltare Pau Palacios che aveva raccontato, ai miei alunni della II F del Flacco, il lungo processo creativo del gruppo a partire dalle risorse dei media, e che poi, attraverso una serie di residenze di creazione, attraverso il dialogo con gli spettatori presenti per capire cosa funziona e cosa no, arriva allo spettacolo finale. Anche The mountain segue lo stesso processo, e si vede chiaramente nella costruzione che è stata portata in scena, ma ha un impatto fortissimo per il tema affrontato che è quello del concetto di verità. Schiacciati dalla marea di notizie, fake news, proclami, affermazioni che si contraddicono a distanza di poche ore e spesso dette dalle stesse persone, ci muoviamo a stento, incapaci di discernere una notizia vera da una falsa, spesso trascinati più dall’emozione improvvisa suscitata dalla notizia che dal ragionamento.

Di questo e di altro parla lo spettacolo di Senor Serrano, che unisce la prima scalata dell’Everest e la trasmissione radiofonica di Orson Welles con La guerra dei mondi, Putin e le sue storielle e il badminton. Lo spettacolo si sviluppa con una serie di tasselli che si intersecano perfettamente: la storia della scalata del 1924 ad opera George Mallory e Andrew Irvine, scomparsi nel corso del loro ultimo tentativo di attacco alla cima, che lascia aperte le ipotesi che possano aver o meno raggiunta la vetta, raccontata tramite le lettere della moglie di Mallory, Ruth; la trasmissione radiofonica di Orson Welles e la parole del regista subito dopo il panico suscitato dalla sua radiotrasmissione unite a quelle pronunciate 17 anni dopo, che ripropongono il dubbio sulla volontà o meno di suscitare quel terrore così da interrogarsi sul ruolo dei media; il volto di Putin proiettato sullo schermo, ma che ha il corpo della giovane Anna Pérez Moya, che dà lezioni di fiducia e verità. E poi il badminton, che nell’ora di spettacolo diventa baseball, e che mi ha ricordato il mondo del tennis dei romanzi e saggi di Foster Wallace, una sorta di codice di lettura dei comportamenti e dei meccanismi della società.

The mountain ci dice di spostare lo sguardo, di guardare dall’alto ma anche di lato, di guardare noi stessi (un drone ad un tratto riprende e rimanda sugli schermi sul palcoscenico l’immagine degli spettatori: chi guarda chi?), di non fidarci delle apparenze, di esercitare il dubbio. E lo fanno in modo giocoso ma estremamente rigoroso ricordandoci perché il teatro sia ancora così importante e necessario.

La forza di questo spettacolo (ma del teatro in genere, del vero teatro) è quello di parlare della contemporaneità, di far riflettere sulla contemporaneità. E anche se oggi la forza dei media è globale e portare ancora la gente a teatro è difficile, rimane fondamentale l’incontro, l’incontro con le altre persone presenti, con i performer, ascoltare ciò che dicono gli altri. E questa ricchezza, questo momento, non si può riprodurre tramite una chat o un video.

La domanda iniziale, “What’s true?, “Cos’è vero?”, rimane senza risposta, ma resta in noi spettatori l’idea della ricerca, del non arrendersi ad un unico punto di vista, perché la realtà è varia, ha mille sfaccettature, mille tasselli che forse possono essere ricomposti solo nel dialogo. Grazie a Agrupaciòn Senor Serrano e grazie al Città delle 100 Scale Festival per la possibilità che offre con la loro programmazione.

(Visto il 10 settembre 2022 nell’ambito della XIV edizione dire/tacere del Città delle 100 Scale Festival)

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«Noi usiamo questi strumenti sul palco e questo modo di collegare le idee, le immagini, i concetti semplicemente perché secondo noi è come noi oggi accediamo alla realtà. Cioè io se mi interessa un argomento e voglio sapere qualcosa su questo argomento subito vado su internet e faccio una ricerca e in questa ricerca mi trovo tanti testi scritti, video, immagini ed è la mia testa che va a mettere insieme tutti i pezzi che sto trovando. Poi posso parlarne con un amico, insieme possiamo produrre un video che poi condividiamo con un altro amico, e alla fine penso che è così che funziona il nostro cervello, e come noi stiamo raccontando le storie oggi giorno, non in un modo lineare ma in un modo fatto di piccoli tasselli. Poi noi condividiamo tutti un sacco di informazioni già comuni, quindi contiamo che il pubblico ha già queste informazioni. Noi soltanto suggeriamo un modo di collegare queste informazioni, in un modo diverso, ed è quello che ci contraddistingue, quello di dare un punto di vista proprio sull’argomento, perché i fatti in sé li conosciamo praticamente tutti e abbiamo più o meno le stesse informazioni. Poi ci diamo un sacco di libertà nel decidere se una cosa combacerà con l’altra o meno, Questo lo metti insieme con la frattura estetica dello spettacolo, con l’approccio, con lo sguardo, con i filtri che tu metti e si collega da solo» (dall’intervista degli studenti del Flacco di Potenza a Pau Palacios, 2 novembre 2017, nell’ambito del progetto Elementi di struttura del sentimento).