domenica 22 ottobre 2023

Io ricordo - Benevento

 


Benevento è stato il luogo della crescita, dell'amicizia, dell'amore. Ma, come in fondo ogni altro luogo in cui ho vissuto, non l'ho sentita mia. Non so da cosa dipenda il sentirmi fuori luogo ovunque vada, ovunque abiti. Ci sono cose, però, fissate nella mia memoria. Il sogno nella camera che dava su via de Nicastro; l'asilo, il gioco del silenzio, la filastrocca di Cappuccetto Rosso con acchiapparella nel giardino; il giro di Benevento dei bambini ed io nel giardino (lo sguardo della bambina); il corridoio buio e le stanze (camera da letto, bagno, salone con TV e quell'unica cena con ospiti; la cucina a sinistra con la veranda); Natale ed i regali fuori dalla porta portati da un carabiniere che bussava; la rabbia di mio padre perché non andavamo a mangiare il giorno di Natale scaricata sui giochi a calci; gli orecchioni con gli asciugamani rossi intorno alla testa...

Non so se singolarmente o tutte insieme queste cose raccontino qualcosa di me, mi fondino in quello che sono oggi. è certo, però, che a ripensarle oggi provo un senso di dolore ancora vivo, una inadeguatezza nel comportamento, un'ansia che mi attanaglia ancora oggi.

Nel sogno di bambino mio padre veniva ucciso da una strega. La paura e il dolore nello svegliarmi gridando di soprassalto non svanirono, nemmeno con l'arrivo di mio padre. Della casa ho memoria di angoli bui, un corridoio scuro, la penombra. Unico luogo luminoso la veranda della cucina. Della casa amavo il giardino, in cui mi perdevo in giochi solitari e fantasiosi. Fuori poco altro: una scuola dell'infanzia delle suore vicina, poco frequentata per la mia asma, che mi lasciava spossato e senza fiato (con l'idea anche di morire).

Dell'asilo ricordo poco: il gioco del silenzio che facevano le suore tenendoci nella penombra ed immobili; lo spazio esterno in cui giocavamo ad acchiapparella con la canzone di Cappuccetto Rosso e il lupo («"Cappuccetto rosso vieni vieni qua, che adesso viene il lupo che ti mangerà" "Io non ho paura perché devo andare dalla mia nonnina che mi sta ad aspettar..." "Corri Cappuccetto Rosso"») e le corse per non farsi afferrare; l'uscita esterna a cui non ho partecipato per l'asma, e lo sguardo triste dal giardino al gruppo degli scolari e ad una bambina che mi vide e ricambiò a lungo lo sguardo.

Inadeguato. Mi sentivo inadeguato. E spaventato. Ma può un bambino sentirsi perennemente così? Ho sognato a lungo quei vicoli intorno a via De Nicastro, sempre con la sensazione di perdermi e non ritrovare la strada di casa. Eppure il corso era a pochi passi, come l'Arco di Traiano. Ma le distanze erano enormi, allora, come i timori. 

L'inizio della scuola elementare al Collegio De La Salle portò con sé l'incontro con Nicola, l'amico.   


Sylvie e Bruno

 



Forse è perché il mio amore per il teatro nasce dalla visione di spettacoli "materici" in cui l'azione e la parola sono carne, sono fuoco che brucia la mente, ma lo spettacolo Sylvie e Bruno della compagnia Fanny & Alexander non riesce a scalfire la scorza esterna, non penetra nel cuore e mi lascia freddo, anche un po' annoiato alla fine.

Uno spettacolo sognante, in cui tutto creano le parole di Lewis Carroll e le luci, dove tutto è lasciato alla immaginazione dello spettatore che fa fatica a seguire l'andamento della storia, anzi delle due storie intrecciate, i cambi di ambientazione, il filo sottile che si dipana tra il fumo, i gesti, le parole e i pochi oggetti di scena (le sedie). Ed è forse proprio la comprensione, alla fine, quella di me spettatore, che manca. L'io-bambino, che dovrebbe immergersi nella nebbia artificiale, nelle luci-bosco, luci-piazza, luci-treno, non risponde alle sollecitazioni e si domanda cosa vogliano dire quei bravi 5 attori sulla scena. 

Ma la domanda non trova risposta nemmeno alla fine, nel dialogo post-spettacolo, lasciando in me un senso di inespresso. Allora alla domanda di Marco Cavalcoli al pubblico rimasto di dire una parola che descrivesse per noi spettatori quanto visto, la mia risposta non può che essere "inespresso".



Visto il 20 ottobre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival.


mercoledì 18 ottobre 2023

Il Capitale

 


è il tempo quello che ci ruba il Capitale. Lo spettacolo di Kepler - 452 mette in scena (ma è corretto definire così quello che abbiamo visto?) la storia di una fabbrica, la GKN di Campi Bisenzio, in cui tutti gli operai sono stati licenziati con una mail il 9 luglio 2021. è la molla che spinge gli operai ad occupare la fabbrica, a rivendicare i propri diritti ma, soprattutto, a riprendere il proprio tempo.

Attraverso la storia collettiva ("Occupiamo", "Insorgiamo" le parole simbolo con al centro il Noi) e personale (quella dei lavoratori sulla scena che raccontano il proprio vissuto, il prima e il dopo delle loro vite da quel 9 luglio 2021) e attraverso la storia della nascita dello spettacolo, con la condivisione dei giorni di lotta e discussione della compagnia con gli operai, ricostruiamo la storia del Novecento, l'affermazione del Capitalismo, di un tempo personale ingoiato dalla fabbrica, di vite dominate dall'ansia, di "punizioni" per mancata "collaborazione" col capitale, strategie studiate per distruggere il rispetto di se stessi, per ingenerare paura, per ridurre la singolarità di ognuno di noi a merce, a "pezzi" di un meccanismo industriale anonimo e irrazionale (o meglio a-razionale).  È la fabbrica di Chaplin in Tempi moderni, è il fordismo esasperato, la catena di montaggio in cui l'operaio è parte del processo produttivo, al pari delle macchine, è un "pezzo",  è l'oggi in cui viviamo.

Scandita dal rumore dell'orologio, la storia ritrova un senso proprio a partire da quel gesto irrazionale di occupazione: è allora che uomini e donne (le poche assunte) ritrovano la propria dignità, il proprio tempo, recuperando il senso della propria vita.

È "naturale" proseguire, dopo lo spettacolo, il dialogo su una storia che non è quella di attori, ma è quella degli operai che la raccontano in scena, e che è la nostra storia. Una storia in cui il Capitale, forse, non ha ancora sopraffatto del tutto le nostre vite.



Visto l'8 ottobre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival.


Con la carabina

 




La violenza portata sulla scena, esposta, col pubblico voyeur, che assiste prima al racconto dello stupro e poi alla uccisione dello stupratore.

Il teatro come set cinematografico, dove i due attori, con pochi oggetti e i faretti che spostano sulla scena, mostrano l'orrore di una violenza quotidiana da cui non c'è redenzione. Non si esce dallo spazio scenico catarticamente liberati, piuttosto oppressi dall'angoscia di un qualcosa che ascoltiamo in forme e modi vari dal telegiornale, che leggiamo nelle cronache cittadine dei quotidiani, a cui siamo quasi oramai assuefatti.

Ecco, forse il senso di Con la carabina della Compagnia Licia Lanera è questo: farci assistere direttamente a quell'orrore che in genere ascoltiamo soltanto, tra un piatto di pasta ed un giro fuori porta, tra una passeggiata ed un giochino on line. Qui siamo costretti a vederlo, anche subirlo, senza poter nemmeno empatizzare completamente con la vittima, ma solo domandandoci di cosa è figlio quell'orrore, di quale società, che vittimizza lo stupratore e condanna la vittima, rendendola a sua volta carnefice.  

Funziona l'azione scenica con le luci di volta in volta spostate dagli attori a segnare e seguire l'intreccio di vite, tra passato e presente, tra vittima e carnefice, tra gioco e realtà.

Nonostante tutto, lo spettacolo non mi è piaciuto, resta una distanza tra il racconto dell'orrore e la realtà, che supera qualunque messa in scena. Resto spettatore. Così come ogni giorno.


Visto il 4 ottobre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival.

Il Terzo Reich


 

No, la videoistallazione di Romeo Castellucci non mi ha convinto. E non perché non sia importante il tema affrontato (l'eccesso di parole da cui siamo sommersi e che divengono insignificanti) ma il modo in cui lo tratta. D'altra parte Castellucci e la Socìetas sono da sempre attenti al discorso sul linguaggio, e in ben altro modo lo avevano trattato in Giulio Cesare - Pezzi staccati ma anche in Sul concetto di volto nel figlio di Dio.

Qui, invece, l'immersione nel cupo suono rimbombante, con le parole che dilagano sullo schermo, una dietro l'altra, mi ha ricordato le serate futuriste, il voler esclusivamente provocare lo spettatore (diverse persone dopo i primi 15' sono uscite dalla sala). E non mi convince nemmeno la riflessione di qualcuno che suggeriva, vista la presenza esclusiva di sostantivi, il tema sacro (anch'esso caro al gruppo teatrale) della privazione del Verbo nel nostro oggi. No. A me pare, piuttosto, la messa in rilievo di cui da anni e da più parti si discute - umana, troppo umana -, della perdita di senso della parola («Le parole sono importanti» rimarcava Nanni Moretti in Palombella rossa). Oggi siamo aggrediti dalle parole, ci dilaniano, ci sommergono e, ad un certo punto, perdono il loro significato.

Delle 15.000 che si sono susseguite sullo schermo ne ho mantenute solo alcune, quelle che rimandavano al linguaggio sessuale (pompino, cazzo, vulva...), alla violenza (sangue), alla società (capitale), ma mi è rimasta in mente una in particolare che alludeva a quello in cui mi sono sentito sprofondato: abisso.

Il momento iniziale, con una ieratica sacerdotessa che, prima nel buio e poi alla luce di una candela, compie gesti che vorrebbero alludere ad un significato altro - per me inconoscibile -, o forse dar vita alla nascita della parola, resta distaccato dal resto e, in definitiva, insensato, come il resto. 


Visto il 26 settembre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival.

Ashes

 



Ring-a-ring-a-rosies
A pocket full of posies
Ashes to ashes!
We all fall down!


C'è ancora il tempo al centro dello spettacolo Ashes di Muta Imago, un tempo misto che, all'interno di una giornata (una vita) di una famiglia mischia passato presente e futuro, alterna tra gli attori i personaggi che di volta in volta rappresentano diverse età della vita (bambini, adulti, vecchi) e diverse ere della storia (animali preistorici, uomini, ma anche una terra senza ancora la presenza della vita animale). Il linguaggio e il suono in questo spettacolo sono tutto, e ogni cosa è resa "visibile" e immaginabile attraverso la voce, il grido, il sussurro (di uomini, animali, del vento, del fuoco, dell'acqua) e la musica con in scena Lorenzo Tomio che accompagna e guida con la chitarra e il mixer audio.
Sulla scena spoglia i quattro protagonisti hanno solo i microfoni ad asta ed i leggii con gli spartiti. Il resto lo fanno la musica ed i fari che, con i loro giochi di luce ad accompagnare le voci, creano la suggestione del tempo nello spettatore.
Un tempo errante i cui confini si slabbrano, come quelli tra le cose, come in un sogno dove ritorniamo fanciulli, rivediamo le persone care che non ci sono più, siamo uccelli nel cielo, e la partitura musicale guida i nostri passi, i suoni ovattati dell'esterno creano il nostro sogno o ci riportano alla realtà.
Come nello spettacolo del collettivo Sotterraneo, anche qui ha un ruolo importante ciò che umano non è, e se il discorso rispetto a L'angelo della storia risulta più estetico che etico, resta l'attenzione data a ciò che oggi l'uomo tende a distruggere spinto dalla furia antropocentrica: ciò che "umano" non è, l'ambiente, il sogno.
Punto di merito finale di questa stagione del Città 100 scale è Nutrire lo sguardo a fine spettacolo, con la possibilità dell'incontro con gli attori e i registi. 



Visto il 22 settembre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival

martedì 17 ottobre 2023

Fragile





                                            A P., a me


Cammino per strada e traballo,
un soffio di vento, un cane che passa,
mi piego precario col peso che porto
(uno zaino, un libro, solo la spesa)
ma è altro che preme, che urge,
le lacrime, il groppo, quel senso dl nulla
che il soffio del vento si porta
lontano, come una foglia.

È vetro sottile la pelle,
si frange, si lacera, scoppia
nel debole corpo che porto,
- che porta, sopporta i pensieri,
passato e presente, pesante
quel peso mi spossa, un fiume,
un fiume che erode la terra.

Mi appoggio alla ringhiera,
fragile, di ferro rugginoso,
che almeno lei non cada,
non ceda la speranza di un figlio, 
non ceda l'amore di un padre.








L'angelo della storia

 




C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. (W. Benjamin, Angelus novus)




Il collettivo Sotterraneo porta in scena uno spettacolo forte, costruito a "costellazioni", una serie di storie che spaziano dal 10000 a.C. all'oggi che ha come filo conduttore la narrazione di eventi.

Nell'intreccio delle storie si dipana il discorso sulla narrazione, sulla costruzione di senso che i sapiens si danno, le certezze a cui credere che si rivelano (quasi) sempre errate: Benjamin che si suicida sicuro che sarà catturato e non riceverà il visto per gli Stati Uniti; Mishima che vuole che il Giappone ritorni al patriottismo tradizionalista e compie il suicidio rituale del samurai; Mike Hughes che si lancia nel cielo con un razzo fai da te convinto che la Terra sia piatta; Hiroo Onoda, il soldato giapponese convinto nel 1974 che la seconda guerra mondiale non fosse ancora finita; la setta del "Tempio del popolo", convinta a seguire il suo leader fino al suicidio: tutti certi della loro verità e della loro narrazione del mondo, i sapiens non sono usciti da quella caverna dove si raccontavano storie, pronti a seguire il capogruppo, come le balene spiaggiate perché incapaci di deviare dal corso scelto dal capobranco.

Spinti avanti dal vento del progresso, possiamo solo guardare con orrore il cumulo di macerie alle nostre spalle, pronti a trovare una nuova storia per spiegare ciò che vediamo ed andare avanti. Lo spettacolo procede tra storie, musica, azioni sceniche, in un gioco che non vuole l'immedesimazione dello spettatore, ma solo la sua collaborazione a trovare un senso, una sua riflessione sull'oggi, come è da sempre come cifra stilistica del collettivo.

E l'angelo della storia, che appare sulla scena, non è un angelo, ma una sorta di paracadutista tenuto in alto dal vento; e la balena è solo un gonfiabile; e il gatto Tommasino con la sua eredità è una fake news. Domani però saremo pronti per un'altra narrazione, un bias di ancoraggio a cui credere.

Tra le storie raccontate spicca quella di William Burroughs che giocando a fare Guglielmo Tell uccide la moglie. E spicca perché nel finale è la moglie a sparare a Burroughs e, questa volta, colpisce il bicchiere e vive. Ma davvero questa è un'altra storia.

Il dialogo Nutrire lo sguardo a fine spettacolo diventa parte integrante del lavoro: chiarisce punti, dà ulteriore senso a quanto visto, riduce le distanze, rimette il teatro nel suo binario di confronto e di discussione.

Uno spettacolo da vedere e con cui confrontarsi.




Visto domenica 10 settembre 2023 nell'ambito del Città delle 100 scale Festival.