1) (il luogo)
Ci sono luoghi dove torno a fatica e che pure sono
stati per me di conforto per lungo tempo.
Ora no, li osservo da lontano, magari passo
davanti, ma non entro più.
Sono legati ad un tempo passato in
cui la cosa importante, unica, era il contatto con una persona cara
persa e quel luogo diventava per me, con tutti i suoi riti (i fiori,
pulire la foto, accendere un lume), il modo per preservare un
contatto.
Era anche il luogo dove si poteva
piangere senza ritegno e se gli altri ti vedevano non c’era
vergogna. Non che la cosa mi sia mai importata tanto, ma c’è un
pudore che ci costringe a nasconderci quando lacrime invadono gli
occhi.
2) (ipotesi di colloquio)
Ci sono dei colloqui calmi, sereni, fatti ai
margini di una lapide. Confessioni e richieste di perdono, atti
d’amore e sorrisi, parole, tante parole, che si uniscono ai
silenzi, all’ascolto del vento tra i cipressi, alle litanie di
preghiere distanti, ai colpi improvvisi di qualche tomba serrata…
Di questi colloqui fuori dal tempo
rimane poco, spezzoni di frasi, residui che mi accompagnano per
giorni e che improvvisi riemergono alla coscienza con una immagine,
un gesto, un moncone di parola. (Ed ecco improvvise altre parole
lontane):
Che giorno perfetto, così, che splendido giorno
perfetto. Anche se è bruciata la materia della storia e il suo
ricordo, disperso nell'acqua dove non restano che residui, rottami,
il resto di una vita, pure ora ti sento qui, profondamente, nel
ventre, che ti muovi dentro e tutto trascini con te come in un gorgo.
“è
il vizio antico della memoria che torna e reclama per le tue
dimenticanze, richiede un valore alle assenze, le incompiute azioni,
il bacio mancato nella penombra degli occhi. Macina, macina, macina
quella polvere, i fogli bagnati, i segnali mancati, le mani deluse,
stanche...”
Non c'è niente e nessuno in queste pagine (nessuno
bussa, nessuno invoca...), nessuno che sappia ancora com'era, lontano
il bagliore, auto veloci e la pioggia che scorre leggera sui vetri.
“No, non c'è più nessuno, lo
sai, neanche io, neanche tu. E tutte le menzogne reclamano una verità
e tutte le fughe una resa, l'ora dell'ultimo rigo in fondo alla
pagina, la trave fondante, l'avanzo di noi, la macchia d'inchiostro
caduta sul tavolo, il pezzo di legno che danza sull'acqua...”.
E' la notte che penetra a fondo nel giorno, volti
smagriti, smarriti i nomi, nel vento: il libro bianco della memoria.
“Bianco, irreale... Qui ha inizio la vita nuova
o quella antica verniciata di fresco, ma dietro? Vecchi segni,
incrostazioni, la macchia d'umido che non è mai andata via...”
3) (passato
presente)
Le cose dette tra noi ieri, oggi
assumono un altro senso.
Le rivivo in rallenty, a volte,
immagino scelte diverse, scene che mutano per un piccolo,
insignificante particolare e tutto il futuro è cambiato.
A volte, tra la folla, un gesto di
un volto per caso riporta il tuo volto, il tuo gesto. Ma è inganno,
lo so bene oramai. C’è stato un tempo in cui credevo di poterti
recuperare nel vivere di ogni giorno, preservando il ricordo
dall’orrore quotidiano. Anche questo, col tempo, l’ho smarrito,
ho perso fiducia nel ritorno. Le piccole dimenticanze sono diventate
mancanze.
Eppure non è sempre così.
Qualche rottame di vita passata,
qualche residuo naviga ancora dentro me.
E su quello ancora mi fondo. Su
quella pietra d’inciampo fondo il presente e preparo il futuro.
4) (Riflessioni)
Si piange su una tomba più per se
stesso che per chi non c’è più. È l’assenza di quell’affetto
che ci fa piangere. Con la persona muore una parte di noi, quel pezzo
di cuore condiviso che si trova, d’improvviso, solo, perduto, senza
più la stanza comune dove dividere parole, sguardi, una carezza.
È che un patrimonio raccolto di
affetti si sente ora dilapidato, per sempre, senza possibilità di
riscatto.
«Gli uomini possono morire senza angoscia se sanno che ciò che amano è protetto dalla miseria e dall’oblio» (H. Marcuse).
5) (da un vecchio
quaderno).
Ma cos’è, cos’è che davvero manca?
Gli occhi, che nel sorriso splendevano chiari o
quel batticuore a vederti sul ponte a ballare armonie, le labbra
dischiuse accennavano “sì”…
Oppure: “Non sono io, lo sai,
quella che ricordi, è l’altra, altro, sei tu ragazzo che insegue i
suoi sogni, quaderni scritti di getto, i libri divorati a cercare
risposte”.
Ma se non sei tu, se sono io che
ricerco ancora, disperato, dopo tanti anni, se non è il tuo viso
riflesso sulla vetrina ma il mio quello che vedo, a che serve questo
pianto sulla tomba, questo lamento perenne su ciò che non c’è?
“è
l’assenza che ti fa disperare, la perduta certezza dell’incontro”.
6) (da me al
mondo)
Corpi senza braccia, volti senza
bocca, muti. E le ceneri disperse nell’aria.
Prima voce:
«Galleggiamo sul dorso, col ventre gonfio, gli occhi fissano il
sole...non abbiamo più occhi, ma orbite che trattengono
prigioniere delle immagini. La nostra pelle non è più la nostra
pelle, ce l’hanno portata via come un vestito rubato, come un
sudario in prestito. Le ustioni scivolano via come il ricordo delle
nostre lacrime e restiamo senza misericordia. È
una tempesta o il ritratto della nostra disfatta che si disegna tra
le nuvole? Vinti lo siamo da noi stessi ed è l’abisso ciò che ci
attende...»
Seconda voce:
«...non ho più stomaco, non ho più corpo... sono un sacco, un
campo in cima a una scogliera, un campo di pietre...ho freddo nella
membra separate...che sia questo l’inferno, di aver freddo in un
corpo fantasma? Chi parla dal fondo di questa fossa? Io? Io non sono
più»
Terza voce:
«Il lutto per noi è nello sguardo dei figli. Chi dirà loro
storia delle nostre disfatte? Ci crederanno. Li vedo già sputare sui
volti defunti. Quante parole inutili... Ah, il verbo, le parole...li
vedo correre e incendiare la nostra memoria. Non sputano più, non
parlano più, dimenticano»
Ma alla fine: cosa è rimasto di tutto questo...
Da una tragedia all’altra, sempre più in fretta, sempre più
fatalmente e follemente. «Ufficialmente tutto è finito da tempo, i
morti sono seppelliti. Ma non tutti. Gli altri hanno contato i loro
morti e li hanno sepolti in belle bare bianche, e hanno lasciato,
dietro di sé, migliaia di vittime, corpi anonimi, senza futuro,
senza passato».
Dalle Ceneri è uno splendido libro di Tahar Ben Jalloun sulla prima guerra del
Golfo, sul diverso modo in cui vennero (vengono) considerati i morti
dell’una e dell’altra parte. Ripenso a questo libro ascoltando il
quotidiano strazio delle morti in Irak ripetendomi “né con la
guerra né con il terrorismo”.
Ma non so se può bastare.
7) (Citazioni)
«Ricordare
il passato può dare origine ad intuizioni pericolose, e la società
stabilita sembra temere i contenuti sovversivi della memoria.
Ricordare è un modo di dissociarsi dai fatti come sono, un modo di
mediazione che spezza per brevi momenti il potere onnipresente dei
fatti dati. [...]. Riconoscere il passato come
presente, [...] significa militare contro la chiusura dell’universo
di discorso e di comportamento, significa rendere possibile lo
sviluppo di concetti che scuotono la stabilità dell’universo
chiuso e lo trascendono per il fatto di concepirlo come universo
storico.» (H. Marcuse, L’uomo ad una
dimensione)
A volte nel sogno mi vedo impaurito
in mezzo alle tombe. Ma la paura non è per il luogo né per l’ora
tarda (è notte, una notte senza luna) ma solo perché non riesco a
trovare la tua e giro a vuoto tra quei lumini e quei fiori senza
riuscire a trovare dove sei.
(Così accadde quando venni la prima
volta: era chiuso il cimitero e scavalcai. Ho vagato a lungo
lasciando infine i fiori davanti ad una tomba anonima).
A volte nel sogno sono in mezzo a una
folla che non conosco e non so chi stia piangendo.
(Ma cosa fa questa gente diversa, che
corre, grida lacera vesti, batte mani contro il viso a battere il
tempo, tempo immobile del dolore, della nostalgia?).
9) (tentativo imperfetto
di risposta ad una critica)
Questo passato, questo pensiero di
ieri mi serve per l’oggi, nell’oggi, in ciò che faccio, nei
gesti che compio con le persone a cui voglio bene.
Mi ricorda, quel passato, di dire le
mie parole, i miei sentimenti. Di lottare per ciò in cui credo. Solo
nel rapporto tra quel passato (il mio, certo, ma non solo), che si fa
humus, seme, e l’oggi che vivo (che prepara il futuro) ha senso la
mia vita.
No, amico mio, non nostalgia del
passato, ma la vita di ieri come fonte dell’oggi.
I miei figli conosceranno il mio passato e lo
giudicheranno. E avranno il loro tempo da vivere. Il mio vissuto non
dovrà incidere sul loro, se non nella misura in cui io modifico l’io
di oggi in relazione a quel passato, che è mio, totalmente.
I miei figli creeranno il proprio tempo. Io posso
solo cercare di prepararlo quanto meglio posso per me e per loro. A
partire dal passato e dal presente che conosco.
La nostalgia che a tratti emerge è sentimento
infantile per un io innocente e fanciullo, ma è anche critica a
quell’io. Critica allo ieri e all’oggi che vivo, desiderio di
cambiamento dell’esistente a partire da me. Senza massimi sistemi.
Senza assolutizzare. Un passato non rimpianto ma vissuto nell’oggi.
11) Io sto parlando di oggi non di ieri.