sabato 31 ottobre 2015

«Provengo da una morte»




Cara Laura,
ognuno ha le sue morti, piccole e grandi. Quella da cui provenivi ha segnato un destino, il tuo, ha segnato il tuo furore di perpetuare memoria, di gridare ad un mondo indifferente l’altezza di un ingegno e di una vita.

Ma, Laura, voglio dirti che per chi resta ogni morte è importante e segna, per sempre. Anch’io provengo da una morte, te l’ho scritto, ed ora che non ci sei ripenso ai tuoi scatti d’ira, le richieste e le fobie tutte in nome di un’idea, e quella rabbia scolora nell’improvvisa dolcezza di un istante… Come sempre dopo una morte.


* * *

Ho scritto queste poche righe dopo la morte di Laura Betti avvenuta il 31 luglio 2004. Con Laura avevo lavorato 10 anni prima, nel 1994 durante la preparazione e la realizzazione della manifestazione PIER PAOLO PASOLINI "...con le armi della poesia..." svolta a Napoli dal 15 ottobre al 20 novembre 1994.
Non era una donna facile, specialmente per la difesa e l'amore per Pasolini, per il quale lottava giorno e notte dalla sua morte. Durante quei giorni morì la madre di un mio caro amico, ed io le dissi che sarei andato a trovarlo. Mi aggredì, dicendo che dovevo restare. Me ne andai sbattendo la porta. In seguito le scrissi e lei, da grande donna qual era, mi rispose con affetto. La distanza delle proprie posizioni restava, ma ci univa anche il rispetto dei nostri valori.

martedì 27 ottobre 2015

Che tu sia per me



Ma c'era? C'era quella festa
di sorrisi, lo sguardo di mio padre
severo, accennava ad un "no".
(Che tu sia per me la frusta,
il graffio di sangue sulla pelle,
la ferita, il taglio, il dolore.
No, non sollievo, ma ansia,
ansia del corpo pronto al salto,
ansia del cuore innamorato).

C'era nell'aria l'odore di cose
nuove, buone, la salsa sul fuoco,
un dolce in forno, oppure quello
della pelle sull'erba bagnata,
schiena salata abbandonata al sole,
come pioggia che non si asciuga,
come lacrime, ma tu non c'eri.
(Sì, che tu sia per me il coltello,
il tormento senza pace
nella gioia sfrenata...).

giovedì 15 ottobre 2015

Ceneri


1) (il luogo)
Ci sono luoghi dove torno a fatica e che pure sono stati per me di conforto per lungo tempo.
Ora no, li osservo da lontano, magari passo davanti, ma non entro più.
Sono legati ad un tempo passato in cui la cosa importante, unica, era il contatto con una persona cara persa e quel luogo diventava per me, con tutti i suoi riti (i fiori, pulire la foto, accendere un lume), il modo per preservare un contatto.
Era anche il luogo dove si poteva piangere senza ritegno e se gli altri ti vedevano non c’era vergogna. Non che la cosa mi sia mai importata tanto, ma c’è un pudore che ci costringe a nasconderci quando lacrime invadono gli occhi.

2) (ipotesi di colloquio)
Ci sono dei colloqui calmi, sereni, fatti ai margini di una lapide. Confessioni e richieste di perdono, atti d’amore e sorrisi, parole, tante parole, che si uniscono ai silenzi, all’ascolto del vento tra i cipressi, alle litanie di preghiere distanti, ai colpi improvvisi di qualche tomba serrata…
Di questi colloqui fuori dal tempo rimane poco, spezzoni di frasi, residui che mi accompagnano per giorni e che improvvisi riemergono alla coscienza con una immagine, un gesto, un moncone di parola. (Ed ecco improvvise altre parole lontane):


Che giorno perfetto, così, che splendido giorno perfetto. Anche se è bruciata la materia della storia e il suo ricordo, disperso nell'acqua dove non restano che residui, rottami, il resto di una vita, pure ora ti sento qui, profondamente, nel ventre, che ti muovi dentro e tutto trascini con te come in un gorgo. 
è il vizio antico della memoria che torna e reclama per le tue dimenticanze, richiede un valore alle assenze, le incompiute azioni, il bacio mancato nella penombra degli occhi. Macina, macina, macina quella polvere, i fogli bagnati, i segnali mancati, le mani deluse, stanche...”

Non c'è niente e nessuno in queste pagine (nessuno bussa, nessuno invoca...), nessuno che sappia ancora com'era, lontano il bagliore, auto veloci e la pioggia che scorre leggera sui vetri. 
“No, non c'è più nessuno, lo sai, neanche io, neanche tu. E tutte le menzogne reclamano una verità e tutte le fughe una resa, l'ora dell'ultimo rigo in fondo alla pagina, la trave fondante, l'avanzo di noi, la macchia d'inchiostro caduta sul tavolo, il pezzo di legno che danza sull'acqua...”.

E' la notte che penetra a fondo nel giorno, volti smagriti, smarriti i nomi, nel vento: il libro bianco della memoria.
“Bianco, irreale... Qui ha inizio la vita nuova o quella antica verniciata di fresco, ma dietro? Vecchi segni, incrostazioni, la macchia d'umido che non è mai andata via...”

3) (passato presente)
Le cose dette tra noi ieri, oggi assumono un altro senso.
Le rivivo in rallenty, a volte, immagino scelte diverse, scene che mutano per un piccolo, insignificante particolare e tutto il futuro è cambiato.
A volte, tra la folla, un gesto di un volto per caso riporta il tuo volto, il tuo gesto. Ma è inganno, lo so bene oramai. C’è stato un tempo in cui credevo di poterti recuperare nel vivere di ogni giorno, preservando il ricordo dall’orrore quotidiano. Anche questo, col tempo, l’ho smarrito, ho perso fiducia nel ritorno. Le piccole dimenticanze sono diventate mancanze.
Eppure non è sempre così.
Qualche rottame di vita passata, qualche residuo naviga ancora dentro me.
E su quello ancora mi fondo. Su quella pietra d’inciampo fondo il presente e preparo il futuro.

4) (Riflessioni)
Si piange su una tomba più per se stesso che per chi non c’è più. È l’assenza di quell’affetto che ci fa piangere. Con la persona muore una parte di noi, quel pezzo di cuore condiviso che si trova, d’improvviso, solo, perduto, senza più la stanza comune dove dividere parole, sguardi, una carezza.
È che un patrimonio raccolto di affetti si sente ora dilapidato, per sempre, senza possibilità di riscatto.
«Gli uomini possono morire senza angoscia se sanno che ciò che amano è protetto dalla miseria e dall’oblio» (H. Marcuse).

5) (da un vecchio quaderno).
Ma cos’è, cos’è che davvero manca?
Gli occhi, che nel sorriso splendevano chiari o quel batticuore a vederti sul ponte a ballare armonie, le labbra dischiuse accennavano “sì”…
Oppure: “Non sono io, lo sai, quella che ricordi, è l’altra, altro, sei tu ragazzo che insegue i suoi sogni, quaderni scritti di getto, i libri divorati a cercare risposte”.
Ma se non sei tu, se sono io che ricerco ancora, disperato, dopo tanti anni, se non è il tuo viso riflesso sulla vetrina ma il mio quello che vedo, a che serve questo pianto sulla tomba, questo lamento perenne su ciò che non c’è?
è l’assenza che ti fa disperare, la perduta certezza dell’incontro”.

6) (da me al mondo)
Corpi senza braccia, volti senza bocca, muti. E le ceneri disperse nell’aria.

Prima voce: «Galleggiamo sul dorso, col ventre gonfio, gli occhi fissano il sole...non abbiamo più occhi, ma orbite che trat­tengono prigioniere delle immagini. La nostra pelle non è più la nostra pelle, ce l’hanno portata via come un vestito rubato, come un sudario in prestito. Le ustioni scivolano via come il ricordo delle nostre lacrime e restiamo senza misericordia. È una tempesta o il ritratto della nostra disfatta che si disegna tra le nuvole? Vinti lo siamo da noi stessi ed è l’abisso ciò che ci attende...»
Seconda voce: «...non ho più stomaco, non ho più corpo... sono un sacco, un campo in cima a una scogliera, un campo di pietre...ho freddo nella membra separate...che sia questo l’inferno, di aver freddo in un corpo fantasma? Chi parla dal fondo di questa fossa? Io? Io non sono più»
Terza voce: «Il lutto per noi è nello sguardo dei figli. Chi dirà loro storia delle nostre disfatte? Ci crederanno. Li vedo già sputare sui volti defunti. Quante parole inutili... Ah, il verbo, le parole...li vedo correre e incendiare la nostra memoria. Non sputano più, non parlano più, dimenticano»
Ma alla fine: cosa è rimasto di tutto questo... Da una tragedia all’altra, sempre più in fretta, sempre più fatalmente e follemente. «Ufficialmente tutto è finito da tempo, i morti sono seppelliti. Ma non tutti. Gli altri hanno contato i loro morti e li hanno sepolti in belle bare bianche, e hanno lasciato, dietro di sé, migliaia di vittime, corpi anonimi, senza futuro, senza passato».

Dalle Ceneri è uno splendido libro di Tahar Ben Jalloun sulla prima guerra del Golfo, sul diverso modo in cui vennero (vengono) considerati i morti dell’una e dell’altra parte. Ripenso a questo libro ascoltando il quotidiano strazio delle morti in Irak ripetendomi “né con la guerra né con il terrorismo”.
Ma non so se può bastare.

7) (Citazioni)
«Ricordare il passato può dare origine ad intuizioni pericolose, e la società stabilita sembra temere i contenuti sovversivi della memoria. Ricordare è un modo di dissociarsi dai fatti come sono, un modo di mediazione che spezza per brevi momenti il potere onnipresente dei fatti dati.  [...]. Riconoscere il passato come presente, [...] significa militare contro la chiusura dell’universo di discorso e di comportamento, significa rendere possibile lo sviluppo di concetti che scuotono la stabilità dell’universo chiuso e lo trascendono per il fatto di concepirlo come universo storico.» (H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione)

8) (un sogno)
A volte nel sogno mi vedo impaurito in mezzo alle tombe. Ma la paura non è per il luogo né per l’ora tarda (è notte, una notte senza luna) ma solo perché non riesco a trovare la tua e giro a vuoto tra quei lumini e quei fiori senza riuscire a trovare dove sei.
(Così accadde quando venni la prima volta: era chiuso il cimitero e scavalcai. Ho vagato a lungo lasciando infine i fiori davanti ad una tomba anonima).
A volte nel sogno sono in mezzo a una folla che non conosco e non so chi stia piangendo.
(Ma cosa fa questa gente diversa, che corre, grida lacera vesti, batte mani contro il viso a battere il tempo, tempo immobile del dolore, della nostalgia?).

9) (tentativo imperfetto di risposta ad una critica)
Questo passato, questo pensiero di ieri mi serve per l’oggi, nell’oggi, in ciò che faccio, nei gesti che compio con le persone a cui voglio bene.
Mi ricorda, quel passato, di dire le mie parole, i miei sentimenti. Di lottare per ciò in cui credo. Solo nel rapporto tra quel passato (il mio, certo, ma non solo), che si fa humus, seme, e l’oggi che vivo (che prepara il futuro) ha senso la mia vita.
No, amico mio, non nostalgia del passato, ma la vita di ieri come fonte dell’oggi.

10) (figli: propositi)
I miei figli conosceranno il mio passato e lo giudicheranno. E avranno il loro tempo da vivere. Il mio vissuto non dovrà incidere sul loro, se non nella misura in cui io modifico l’io di oggi in relazione a quel passato, che è mio, totalmente.
I miei figli creeranno il proprio tempo. Io posso solo cercare di prepararlo quanto meglio posso per me e per loro. A partire dal passato e dal presente che conosco.
La nostalgia che a tratti emerge è sentimento infantile per un io innocente e fanciullo, ma è anche critica a quell’io. Critica allo ieri e all’oggi che vivo, desiderio di cambiamento dell’esistente a partire da me. Senza massimi sistemi. Senza assolutizzare. Un passato non rimpianto ma vissuto nell’oggi.

11) Io sto parlando di oggi non di ieri.




(ottobre 2004)


sabato 10 ottobre 2015

Sul ciglio della felicità






"Felicità, vurria sapè ched'è chesta parola, vurria sapè che vvò significà.
Sarrà gnuranza 'a mia, mancanza 'e scola
ma chi ll'ha 'ntiso maje annummenà"


“E la felicità?” – mi chiedevi. “Sai scrivere di felicità? Sono così tristi le cose che scrivi”.
Allora non ti ho risposto. Vivevo. Ero felice. Oggi ti direi che non so scrivere se non di ciò che ho vissuto o vivo. Soltanto un evento che è sangue e carne mia accende qualcosa, un pensiero, un verso, anche solo un desiderio di scrittura che rimanga per me, un domani, quando non potrò più viaggiare, incontrare persone, scrivere. Solo così potrò ritrovare voci e luoghi, tutto quel mondo che urla e brucia in me.
Ricordo, vivo, immagino, sento…

Il ricordo è la pietra sulla quale ho costruito il presente; ma quella pietra è, spesso, inciampo al vivere di oggi. Così immagino scenari diversi, quello che sarebbe potuto essere e non è stato, evoluzioni che hanno senso solo nel mondo "altro" che abito con i pensieri ma che sento in maniera autentica, con trasporto.
…lo stridere che coinvolge il mio volere e il mio riuscire…

Ora scosso da inquietanti spasmi di infelicità cerco, come un'ossessione che non concede respiro, il significato del suo contrario sentire.

…e se la felicità fosse solo un'aspirazione, se fosse solo un porto immaginario, il traguardo atteso, il sogno vissuto tra calde lenzuola e avvolgenti ninne nanne?!

Felicità. Ogni esistenza vissuta è attraversata, più o meno spesso, da momenti di felicità che appaiono infiniti eppure insaziabili nell'esatto istante in cui siamo chiamati ad assaporarne il gusto. 

MOLTI tra questi momenti di felicità sono dovuti alla fortuna, alla non scelta condizione che ci è dato di vivere, a quanto ci è stato riconosciuto e concesso gratuitamente e solo perché siamo nati in quella particolare famiglia, in quel determinato momento storico e in quel determinato angolo del mondo. A dispetto di ciò e dell'azione della bendata fortuna posso dire, però, che TUTTI i momenti di felicità sono governati dalla volontà e dal coinvolgimento, perché per essere felici occorre davvero volerlo. Volontà e fortuna. Fortuna e volontà. 

Ritorno a me, al malessere che ora mi assale e mi sforzo di carpire il senso di quest'incessante stridere che coinvolge il mio volere e il mio riuscire...

Eppure c’è, nella felicità più piena, nella gioia sfrenata della tua danza tra gli alberi, un senso di fine, la percezione che non può durare. Non so bene se questo è legato per sempre alla tua morte, al fatto che quella viva felicità, posso dire la prima provata in età cosciente, “adulta”, sia stata macchiata dal dolore più grande, quello che ti toglie tutto e ti lascia gemente tra fiori e lumini.

Ma anche allora, quando, inconsapevole del male che ti rodeva le viscere, ti cercavo nei giorni frenetici, i giorni arsi dei miei diciotto anni, assaporando le tue labbra, c’era qualcosa, un tarlo, un grumo mai sciolto di sangue che martellava le tempie. Era la paura di non poterti dire mia. Troppo altro intorno. Un marito, dei figli, un mondo che ci giudicava severo con gli occhi suoi di condanna.
Cerca, mente, scava, trivella…felicità, dove era la felicità?

Ma io ho imparato a scovare la felicità anche nel buio più pesto, anche quando tutto sembrava perso… Sempre più giù, nel fondo. Ma può bastare?

Per troppo tempo ho ripetuto le stesse azioni: la ricerca di una felicità impossibile, amori già finiti prima di cominciare perché minati dallo spettro di te persa tra la folla. Eppure perseveravo: la felicità, dicevo, è qui, dietro quel volto che mi sorride. Un fallimento, una morte non può annullare tutto. Dimenticavo spesso che nella mia ansia di felicità rischiavo di rendere infelici altri. Dimenticavo che per essere felici, veramente felici, non bisogna far soffrire nessuno, mai.
…lo stridere che coinvolge il mio volere e il mio riuscire…

Ho sofferto. Ho fatto soffrire. Anche quando non volevo. Credevo. Speravo. Volevo. Incommensurabilmente. Volevo. Volevo a tutti i costi e rovinavo tutto… Volevo per riuscire tenacemente a preservare l'humus della mia felicità. Ma era il cuore, come sempre, che si lanciava avanti. La mente era dietro. Uno spazio enorme li divideva. Quando arrivava era tardi. Già tutto accaduto. Solo le cose da riconsiderare, rimettere in piedi, cercare di rimediare per continuare ad essere felici.

Oppure no: non era il cuore a prevalere ma la volontà. Sì, il desiderio assoluto di essere felice…mente ti prego non giudicare…di godere a pieno quei momenti di felicità…mente, non ora, non valutare…momenti inafferrabili, poi perduti, dei quali ho custodito solo frammenti. La volontà si, una volontà-uncino alla quale aggrapparmi, che lacera e sostiene, ma non dà sollievo.
…lo stridere che coinvolge il mio volere e il mio riuscire…

«Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità» (Epicuro)

La volontà consapevole cede spazio alla volontà distratta, i confusi pensieri che affollavano l'enorme spazio tra mente e cuore diventano nitidi, il frastuono delle sensazioni non disorienta ma è indizio per capire e tentare di saldare ogni frattura.

Ho imparato. Ho imparato, nel tempo, felicità diverse. Un sorriso ricevuto. Due occhi stupiti aperti sul mondo come una domanda. Una voce che improvvisa arriva dalla distanza ad annunciare incontro. L’ammore (sì, ammore) degli altri, quello che è il contrario di uno e che non è soltanto due; quello che ti dice di condividere e unire, quello che è parola e silenzio ed annulla l’indifferenza, quello che illumina. Una piccola mano che stringe la tua.

Ecco che partorisco spontanei sorrisi e spiego la fronte, prima corrucciata, in un'espressione candida e di sollievo. Provo felicità; felicità per il ravvivato ricordo delle gioie vissute, per i dolori affrontati e superati, per la tenacia che anima la resistenza di fronte alle tensioni nuove e ai singhiozzi sommessi, felicità per la possibilità di essere migliore e, soprattutto, di essere per gli altri un "significato" positivo capace anche di trasfondere felicità.

«Non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta». (Epicuro)


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Pubblicato su «soglie» sotto il nome di nuvola di vento, lo scritto è frutto di un laboratorio teatrale tenuto a Viggiano nel 1997.