martedì 19 dicembre 2017

La città non rispose



Quando si chiude è sempre una sconfitta. 
Me lo ripeto mentre assisto impotente alla chiusura del CSOA Anzacresa, il centro sociale occupato autogestito sorto nella palestra del Coni a Montereale e che in breve era diventato un punto di riferimento per tante attività, culturali, musicali e sociali. Illegale? Certamente, però capita spesso che alcune azioni nate dal basso siano da un punto di vista giuridico illegali ma assolutamente necessarie. Necessarie per ridare vita ad un luogo abbandonato, per far rinascere un quartiere, per suggerire azioni utili per tutta la comunità cittadina. In questi mesi l'Anzacresa ha dato vita ad una serie di attività belle e stimolanti, ha posto all'attenzione della comunità l'abbandono di uno spazio che è stato importante per la nostra città (il palazzetto del Coni) ridandogli vita. La chiusura è segno di sconfitta per tutti noi che non siamo stati capaci di comprendere il messaggio di quei ragazzi, di tutti noi che abbiamo detto "sì però hanno occupato illegalmente", di tutti noi che li abbiamo lasciati ad occuparsi di problemi che sono della città e che la città dovrebbe affrontare e risolvere. Ma la città non risponde, alla domanda di senso di questa gioventù, si gira dall'altra parte. Eppure anche i PAZ (di cui mi onoro di essere socio fondatore) hanno iniziato illegalmente: non hanno chiesto il permesso di occuparsi del bene pubblico, hanno visto un degrado ed hanno cercato di operare per eliminarlo, per prendersi cura di ciò che ci appartiene. Così anche loro.
E intanto Montereale è abbandonata. I lavori sul ponte vanno a rilento. Le uniche scale di collegamento tra via Viggiani e via della Pineta (la strada più breve rimasta dalla chiusura del ponte per arrivare a Montereale se non si vuole fare il lungo giro da corso Umberto I, piazza XVIII agosto e via Vaccaro) sono state chiuse per una perdita di acqua fognaria che prosegue da più di un anno. Non si pone mano alla situazione, non si risolvono i problemi, ma lì dove sorgono si chiude, aspettando chissà quale intervento. 
La chiusura è una sconfitta.

domenica 15 ottobre 2017

Quando Medea è per strada



C'è un pulmino con sette persone a bordo ed un autista. Non sanno cosa aspettarsi quando si parte. Poi sale lei, vestita di nero, con spiccato accento straniero, ed inizia il viaggio. Un viaggio nel nostro presente quotidiano e nel passato dei paesi dell'est europeo. Le parole del passato sono Bucarest, Ceausescu, il paesino dove rifugiarsi dal pericolo della violenza di regime (perché il padre, maestro, vuole essere libero di dire ciò che pensa), le canzoni patriottiche e quelle d'amore.
E poi c'è il racconto del secondo viaggio, quello della speranza, della vita che dovrebbe ricominciare in Italia, ed invece è un percorso verso gli orrori, gli orrori della schiavitù del sesso, di un debito che non si smetterà mai di pagare, dei clienti, di un pappone che forse è diverso "perché mi vuole bene", dei figli, del marciapiede, del sesso a pagamento. È ciò che noi vediamo lungo le nostre periferie o forse solo ciò che c'è ma non vediamo più perché ci siamo abituati, è paesaggio quotidiano e non ci facciamo più caso. Quelle donne lungo la strada sono come un albero, una casa, un cane, una foglia caduta, un rottame abbandonato. Ed il racconto prosegue e si unisce al mito: il "fidanzato" che non la vuole più perché desidera una vita normale; la vendetta della Medea moderna che uccide i figli e la fidanzata italiana; la fuga. Ma questo è altro: ciò che resta è quella folla di donne, di ragazze, di bambine ai margini delle nostre strade che vedono passare la vita; quel che resta è il nostro occidente opulento che tutto usa, anche l'amore, anche la vita degli altri, oggetti abusati e messi in vendita sul mercato del mondo.

Medea intanto fugge e come prima si era svestita (pantaloni, collant, 5, 6, 7 mutandine, una per ogni cliente, come i preservativi, tutto contato e numerato per non impazzire), ora si riveste con una tuta, si strucca, si toglie la parrucca. È una qualunque ragazza che incontri per la via e a cui non fai caso.
Medea scende. E tu rimani là con le tue domande, e con la certezza di far parte, sì, anche tu, anche se non direttamente, di questo grande mercato del sesso, con la tua vita, con lo sguardo sempre rivolto ad altro.

(Visto a Potenza l'11 ottobre 2017 nell'ambito del Festival Città delle 100 scale. Produzione Teatro dei Borgia. Con Elena Cotugno)

domenica 27 agosto 2017

Di calcio, di stelle e di altre amenità

Non sono mai stato un grande tifoso di calcio, le mie passioni sono sempre state altre. Non ho il cuore pulsante per una squadra, la voglio dello sfottò contro i tifosi avversari, il grido per un goal o le lacrime per la sconfitta. L’ho sempre considerato un gioco, il calcio, un bel gioco da fare in mezzo alla strada o su qualche campetto (fino a che ne ho avuto la voglia) e magari anche da vedere (ma sempre in modo molto parco).
Eppure anch’io, nell’età in cui i miei compagni sceglievano la squadra del cuore, ho avuto una squadra, anzi due. Tutto iniziò per un album Panini, tutti facevano l’album Panini, tutti si scambiavano le figurine o si sfidavano: col soffio o con lo “schiaffo” per farle girare. A me piaceva una maglia a righe bianche e rosse, era la maglia del Lanerossi Vicenza. Non ricordo bene come decisi di tifare per il Vicenza, forse perché mi piaceva il nome di un giocatore, Cinesinho, che c’era sull’album insieme ad una sua immagine. E poi mi incuriosiva il nome della squadra, Lanerossi…




 Non l’avevo mai visto giocare Cinesinho, ma mi piaceva il nome legato a quel viso, che permetteva di inventare storie. Poi per quella squadra giocò anche Paolo Rossi, proprio nell’età in cui, 10 anni, è più forte rispecchiarsi nelle favole calcistiche che ogni tanto accadono. Quando Rossi lasciò il Vicenza (finito in B) abbandonai anch’io il “tifo” per quella squadra.
Mio padre, anche lui poco interessato al calcio, era di Napoli e forse per questo o piuttosto perché comprava il Mattino e la pagina dello sport era sempre dedicata al calcio Napoli iniziai a tifare Napoli. Di quella squadra mi piaceva Bruscolotti, un terzino di quelli asfissianti, insuperabili marcatori e poi Ruud Krol, il libero olandese.



Questo fino all’arrivo di Maradona. Con lui, complice anche il fatto che ero all’Università a Napoli, ho davvero respirato dal vivo il clima del tifo, il senso del riscatto di una città, l’appartenenza ad una squadra e al sud. Il primo scudetto fu un’orgia di colori e suoni, a cui partecipai girando per la città impazzita. Ma questa è un’altra storia. Finito quel momento finì anche quella momentanea passione. Neanche il secondo scudetto scalfì la fine dell’amore per il calcio. 
Oggi mi piace leggerne, vedere qualche partita, ma non mi esalta più. Mi ha fatto piacere sapere del Benevento in serie A, della vittoria del Napoli sul Nizza, mi è dispiaciuto per la sconfitta della Juve nella finale di Champion, ma nulla più.

* * *

Un grido. Improvviso. Nella notte. Era stato questo a svegliarmi, ne ero quasi sicuro. La sveglia sul comodino segnava le 2.47 ed io avevo gli occhi spalancati, un senso di oppressione nel petto e, negli occhi, l’immagine nitida di qualcuno in pericolo. Delia dormiva quieta al mio fianco.
Forse però non era niente, se non il senso di una giornata perduta dietro social, al computer, nella penombra della stanza…. Tutto è fagocitato dal biopotere, non c’è più spazio per la singolarità, domina il profilo… Ripetevo questo, come un mantra, mentre lieve tornava il sonno, senza sogni.

* * *

10 agosto 2017. Non ci sono più zone d’ombra da cui guardare il cielo. La spiaggia è tutta illuminata dai fari dei villaggi. Qualche rara stella fa capolino, supera l’indifferenza, la luce dei cellulari, il divertimento a tutti i costi dell’animazione.
Gli sguardi sono rivolti verso il basso, cercano un’app che faccia vedere le stelle cadenti dal telefonino, senza bisogno dell’attesa, del silenzio, dello stupore di quell’improvvisa scia, di altri desideri, di un altro tempo. Davvero è un tempo de sidera, mancante di stelle.
Sarà che avevo 18 anni e le stelle che ho visto cadere – con i desideri espressi in quei giorni - non potranno più attraversare il cielo, sarà che ho 50 anni e più della metà della mia vita è rivolta al passato, però tutti quei 10 agosto, quelle strette di mano, i pensieri a valanga sul futuro, la sabbia fredda, il buio, il perdersi nella ragnatela di stelle, i sogni, la pietra sotto la schiena, i sorrisi, lo stupore, le magre parole sono un mare di fronte allo spreco di questo giorno, di questa notte in cui cerco un angolo di buio e silenzio… e non lo trovo.



* * *

La ferita al piede costringe a modificare il passo, a seguire non l’onda dei pensieri che spinge al ritmo incalzante dell’ora, ma il corpo che chiede di rallentare, di non bruciare la strada, di essere lieve nel cammino, trovando pause, attese. È un cambiamento del pensiero che non corre più avanti ma si sofferma sulle cose, sul percorso fatto e su quello da fare, su ciò che è sospeso, fragile e basta un soffio di vento per farlo cadere. Il respiro si allarga, lo sguardo si apre al mondo.

* * *

Il corpo partecipa al pensiero. Gli odori, i colori, le sensazioni situate in un luogo. È memoria sensoriale che ci forma. Il corpo conosce e scolpisce il nostro cervello. Così desideriamo un paesaggio, quel paesaggio, fatto dei nostri ricordi, del vento che le scompigliava i capelli, della mano stretta, di quelle parole.



sabato 26 agosto 2017

Montereale

Il 25 agosto 2016, dopo la comunicazione del Comune di Potenza del 23, (vedi qui http://www.comune.potenza.it/?p=17499) il ponte di Montereale veniva chiuso al traffico. Ancora per qualche giorno rimase aperto il passaggio pedonale prima della definitiva chiusura.



È passato un anno. Tra soste e ripresa lavori, con 80 giorni ancora previsti prima della ultimazione definitiva dei lavori e (si spera) della riapertura del ponte, la situazione ad oggi è questa.



Rispetto al progetto mancherebbe quindi lo smontaggio degli ultimi pezzi dell’impalcato, la realizzazione del nuovo impalcato e alcuni interventi sui pilastri (dopo che è già stato effettuato il loro rafforzamento alla base).



In un anno sono state notevoli le difficoltà degli abitanti del quartiere, con cambi improvvisi di viabilità, chiusura anche dei passaggi pedonali e spesso comunicazione non adeguata.

* * *
9 agosto 2012, cinque anni fa. Il parco nelle nostre mani. Era l’inizio dell’avventura di ADM – PAZ e delle tante domeniche (e non solo) passate ad occuparsi del parco. Era l’inizio degli eventi, dei giardini, delle poesie, dei giochi… (http://monterealelab.altervista.org/).
A cinque anni di distanza c’è molta stanchezza perché non c’è stato un ricambio, perché alla fine quei pochi folli che c’erano all’inizio non sono aumentati (anzi forse qualcuno si è perduto per via). Ma anche se l’avventura dovesse finire oggi la considererei positiva, per aver risvegliato interesse intorno al parco, per averlo incominciato a ripensare, per essere stati in qualche modo seminali per tante altre iniziative.
Ed è forse anche piccolo merito dei PAZ l’attenzione dell’Amministrazione comunale al parco con la destinazione di 300.000 euro per un intervento (previsto dal PO FESR Basilicata 2014-2020) per la tutela e la valorizzazione del parco. Sì, è una buona notizia l’approvazione dell’Investimento Territoriale Integrato di Sviluppo Urbano della Città di Potenza perché consentirà di continuare l’opera di restauro ambientale messa in atto da ADM e di intervenire su quelle criticità che abbiamo messo in rilievo in questi anni.
Finché le forze e la voglia rimarranno noi continueremo, fedeli ai nostri inizi, all'idea della cura e del rispetto dei beni pubblici, alla bellezza nella semplicità, all'inclusione e all'incontro.





giovedì 24 agosto 2017

For every day




Hai lasciato di te le parole
e poco altro, una foto
in cui sorridi, un rimpianto
che non smette, ed ogni volta
è lo stesso dolore, la pena nel cuore.

Amleto + Die Fortinbrasmaschine



Lo so. Sono un passatista, uno a cui piace il teatro nel quale il silenzio e il buio permettono il derdersi della vista e dell’udito. Ma nell’età dell’homo videns e dei social anche il teatro ha perduto la sua aura sacrale. Il mistero della parola che risuona improvvisa, i silenzi carichi di attesa. C’è uno spettacolo nello spettacolo, fatto di luci che si accendono nel buio, di whatsappiani che chattano e non sanno fare a meno, neppure in quell’ora, di rispondere all’amico, all’amante; di internauti che continuano a navigare, di parlatori seriali che rivolgono domande al vicino o che ripetono le battute del testo che conoscono, e le proseguono anche, di fotografi incalliti che anziché gustarsi con gli occhi ciò che accade mettono un filtro alle loro emozioni e cercano di fissarle 1, 2, 10 volte, con luci di flash che esplodono e rumori di otturatori che si chiudono.

E allora, forse, il mio giudizio sull’Amleto di Fortebraccio è segnato anche da questa mia impossibilità a perdermi nello spettacolo, ad emozionarmi completamente.
Intendiamoci: bellissima la scenotecnica, la struttura luminosa circolare che di volta in volta funge da campana, prigione, cielo, quinta, orizzonte di Amleto/Amletmaschine; stupendi i giochi di luce, il lavoro sulla voce a cui Latini ci ha abituati, con i microfoni diversi per le diverse voci; le strutture metalliche a rappresentare personaggi della tragedia e a rimandare al presente, ma… ma c’è qualcosa di freddo in tutto questo, un’unione incompiuta, forse voluta, forse no. È che nella messa in scena il discorso complessivo sembra venir meno, spezzettato in tanti quadri. Certo, c’è il riferimento all’oggi, alla frantumazione dell’individuo, all’impossibile unità dell’io scisso tra bene e male, tra essere e non essere. Ma a volte Latini gigioneggia troppo, nei suoi richiami a Bene, Eduardo, lo stesso Muller da cui è partito per la sua riscrittura.

Chi è Amleto? Che cosa ha ancora da dirci? La sua tragedia è tutta appartenente al passato o si è portato, nel morire, qualcosa che riguarda il nostro presente, il nostro futuro? I “classici”, insomma, hanno ancora diritto di parola?
La risposta per me è ovviamente s^. Amleto è il noi di oggi, ammutolito e circondato da voci e suoni che lo separano da sé. Le parole, che avevano senso allora, hanno perso di significato. Il ripeterle, uguali a quelle del testo, mostra il loro essere divenute vuote. La commedia, che si unisce alla tragedia, serve proprio a relativizzarle, a farle perdere nel blabla (con cui si conclude l’opera), nella chiacchiera quotidiana.
Tutto il senso della tragedia di Amleto, delle morti (del padre, di Ofelia, della madre, di Laerte, di Polonio di Amleto stesso e, ancora, di Polidoro, Andromaca, Cassandra, Agamennone), dell’amore, della vendetta, non c’è più, è perso come “lacrime nella pioggia”, it’s time to die.

Cosa resta dunque alla fine? La parola che ci dice, quella che sopravvive alla chiacchiera e ci dà senso, l’umano che permane al tecnologico, la memoria degli assenti senza i quali nulla sarebbe e avrebbe senso.

lunedì 17 aprile 2017

Come cosa grave




Sfiorita la prematura primavera
dall'improvviso gelo lascia povere
spoglie al suolo sparse...

La pioggia che cade stanca la terra
di pozze e di foglie. Fragile il ramo
al vento intrama il grigio intorno.

Nessun viso, solo ombrelli... Mi resta
il ricordo di altri temporali,
corse, risate, un bacio. Ma l'inverno,
l'inverno è nel cuore...

domenica 19 febbraio 2017

Il guscio vuoto



Elenco

Un filo d'erba,
la foglia che resiste,
l'ago di pino e la pietra sulla strada,
lo scoglio abbandonato all'alba,
la strada che s'inerpica, 
il silenzio di certe mattine,
il mare bruciato dal tramonto,
la pioggia quando cade dopo il caldo,
l'aria tersa, il sorriso di mia moglie,
l'abbraccio dei miei figli, un cane,
la mano dell'amico che ti stringe,
i nomi di chi non ti accompagna,
le lacrime di chi hai abbandonato,
i dispersi, i perduti, gli assenti,
tutto questo ricorda, non scordare.



Dietro il vetro

Ho sempre giudicato dall'alto,
dal ponte guardavo scorrere la vita,
il gatto, la signora con la spesa,
la macchina che corre, vedevo
nella stanza la tavola imbandita,
il bambino col pallone sul terrazzo,
la donna che stendeva, ascoltavo
le grida furiose dei vicini,
i versi del folle nella strada,
le risa, i pianti. Un giudizio
per tutti, non per me, per la mia vita.

Adesso sono io che passo
sotto il ponte, giro senza meta
per le strade, aspetto con ansia
la luce o il temporale, mi arrampico
nel giorno, guardo l'erba che cresce,
il sole che scompare.


Alternativa

Ricorda di dimenticare,
vivi il presente senza pentimento,
il filo d'erba non ancora arso,
il fiore, il bacio, l'ultimo sole...
Dimentica il sasso, la strada attraversata,
il viso perduto tra la folla,
la corsa disperata (era felice?)
gli occhi accesi, la pioggia, la mano
abbandonata sul cuscino, la maschera
d'ossigeno, i capelli, perduti...



Agosto 2016

La bandiera della pace è stinta,
le intemperie l'hanno logorata,
il tempo ha cancellato la parola,
altro preme, urge. Lo straccio rimasto
appeso è solo un ricordo, le stragi
quotidiane non spingono più in piazza,
né le scelte di chi governa o la rabbia.
Rimango davanti ad uno schermo
senza più voglia, senza più voce.




Un vecchio appunto

Ma dove sei rimasta vita mia
attaccata a quella felpa bianca
lisa dagli anni, dai pianti, dagli abbracci,
che rivedo ancora in foto rubate
di speranze spezzate, fughe e risate...



Poi arriva la pioggia

E' prima la luce che scompare, 
di colpo il buio nella stanza,
il rombo lontano, il silenzio
intorno. Ma no, mi inganno,
è l'odore che arriva per primo
portato dal vento, quello di piante
bagnate, di nuvole stanche
che portano pioggia, l'odore
dell'erba e la terra che senti
tra dita a scorrere lenta
(che porti sul palmo, che porti
sugli occhi). L'odore del giorno,
di un anno passato, la roccia
la casa la spesa una mano
i fogli di carta la polvere i sogni,
perduti con l'acqua in quella grondaia.
Poi arriva la pioggia...



Prima che sia tardi

Prima che sia tardi ricordati di appuntare ogni cosa: la spesa, i compiti, i progetti, i libri che non leggerai, le parole che vuoi dire, le frasi ascoltate, i nomi di chi ti è accanto.



Gerride impuro

Pattino su uno stagno
l'immagine fosca che mi circonda
non blocca la danza,
agito le braccia, canto,
sospeso sull'acqua come in volo.
Un colpo di vento e mi libro
sul fango, sfioro ninfee
attento alla rana golosa.
Mi poggio appena, leggero, 
precario, mi specchio e, nel mentre, 
affondo con gli altri compagni,
inebriato dal sogno.



Un inetto

Io non so vivere senza la vergogna
dell'errore, ciò che ho fatto
porta il turbamento oggi come allora,
il mio peccato è non dimenticare,
non i grandi eventi, non la Storia,
solo quelli privati, i miei, lo sgarbo
fatto, la parola offesa, il gesto della mano.
Il passato mi tiene prigioniero. 



A day in the life

Pioggia, solamente pioggia,
fanali di auto e pigri lampioni.
Ma la pioggia, la pioggia che cade
che batte, e sei lì, in ascolto.

Di voci lontane perdute nel tempo
di giochi, serate, di cose smarrite.
La pioggia continua, ricopre i ricordi,
lava il tuo sangue, asciuga il dolore.
Ma forse sei lì, in quel sangue
nell'acqua che scorre, che scorre...

No, perduta in angoli remoti
della mente, l'oscurità ti possiede
e se torni non sei carne viva, ricordo,
ma ombra, fantasma tra le ombre
della mia vita passata, la cenere
che resta al mattino del falò sulla spiaggia.

Poi di nuovo la pioggia sul viso
di un bambino che piange ed i fari 
ed il vento e la corsa tra queste pozze 
grigie, qui dove tu non ci sei...



In nomine patris


Padre, padre, padre
smarrito negli atti del giorno
lontano dai ricordi e dal presente
perduto ora anche nel rancore.
Non torni fantasma, vergogna,
rimorso, non sei nell'erba 
che curo, negli occhi dei figli...
Eppure rimani in un nome
padre, padre, padre,
nella mia rabbia che ti perpetua,
negli oggetti che conservo.
nell'essere per sempre in anticipo
agli appuntamenti del mondo.

venerdì 27 gennaio 2017

«In balia di un'invisibile giostra»





Non amo i "giorni di" (degli innamorati, delle donne, della memoria...) perché è come se solo in quei giorni noi dovessimo attenzione all'amore, alle donne, alla memoria, lavandoci la coscienza per gli altri 364 giorni in cui possiamo fare tutto contro, in cui possiamo dimenticare.

La memoria, come un muscolo, va tenuta in esercizio, altrimenti corriamo il rischio di ritrovarci a non sapere più cosa è accaduto nella Germania nazista o nell'Italia fascista, corriamo il rischio di dimenticarci cosa ha significato la Resistenza o perché c'è stata, perché le deportazioni, le uccisioni, il dolore, vivendo in un eterno presente in cui il passato non conta, non esiste.

Il rischio che io percepisco è proprio questo: da un lato quello della dimenticanza, pericolo grave che potrebbe permettere il ritorno (e a volte alcuni eventi lasciano intravedere il bagliore) di quell'orrore passato. Quando l'uomo non è più considerato tale ma merce, oggetto da sfruttare, quando si invoca l'uomo forte al potere o si assiste silenziosi alle violenze perpetrate contro i più deboli, quando si vede venire "un inverno dello spirito" da molti indizi, ci si deve preoccupare e richiamare alla memoria con forza ciò che è accaduto perché non si ripeta di nuovo.

Il pericolo che io vedo è quello di far ricadere tutto in un grande spettacolo. Tutto è uguale, tutto è niente: la morte, gli orrori, la sofferenza. Chi va ad Auschwitz, una volta rimosso il tragico dal proprio orizzonte, la memoria di ciò che è stato, ci si culla in una bolla di falsa positività, senza percepire la dimensione e il senso dello sterminio, né tantomeno come sia potuto accadere. Ci si fa un selfie davanti al cancello, si fa un picnic sull'erba o una foto vicino al palo delle torture con false espressioni di dolore. Tutto è spettacolo, tutto è presente, tutto è divertimento fino a far diventare Auschwitz Austerlitz, perchè il nome (la COSA) non conta più. Conta il qui e ora.

Io mi avvicino a questa giornata da letterato. Attraverso la letteratura, la riflessione, la poesia, la parola cerco di riportare nell'oggi quel passato. Per non dimenticare:

«Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. 
Mai dimenticherò quel fumo. 
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. 
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede. 
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere. 
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai» (Elie Wiesel, La notte).

Ma può bastare? Possiamo noi, che viviamo più di 70 anni dopo, comprendere pienamente? Siamo in grado di non trasformare quei luoghi in una sorta di nuovo centro commerciale? Possiamo cioè penetrare veramente l'abisso di abiezione in cui cadde l'uomo per evitare che riaccada? Siamo capaci di evitare l'assuefazione , l'addomesticazione all'orrore? 

Forse l'unico modo è cercare di disinnescare il meccanismo degli "ismi", sfatare la febbre identitaria del NOI e LORO, non innalzare ad idolo una bandiera, saper discernere con la ragione per non vaneggiare. 

«Uomini e donne di tutti i paesi d'Europa si radunano qui su questi alti terrazzamenti di montagna, dove il male aveva il sopravvento sul dolore e sembrava capace di imprimere alla consunzione il marchio dell'eternità. Si radunano qui per poggiare il piede su un luogo sacro dove le ceneri dei loro simili, con muta presenza, segnano nella coscienza dei popoli una tappa incancellabile della storia umana.» (Boris Pahor, Necropoli).

E nel contempo mantenere la capacità di vedere il bello del mondo, non arrendersi all'orrore, coltivare lo sguardo insieme alla memoria.

«Adesso ci sono altri bambini intorno a me; attraverso i vetri picchiettati di rugiada mi appaiono moltiplicati e orlati dai colori dell'arcobaleno; si muovono davanti alle tende; fra poco quelli che non saranno partiti cominceranno a giocare a palla o ad agitare la racchetta del volano. Forse non c'è niente che mi è più caro, nei miei vagabondaggi estivi, del palpito vivace che agita il campeggio la mattina e al crepuscolo, quando ragazzi e ragazze adolescenti si muovono al ritmo di un amore appena presentito. Io continuo a starmene disteso, immobile, perché non so come fare a radunare gli abitanti delle baracche cupe davanti a questi giovani che sono i germogli dell'immortale stirpe umana. E non so come collocare davanti a loro le ossa e le ceneri umiliate. E, nella mia impotenza, non riesco neppure a immaginare come le mie visioni potrebbero trovare le parole giuste per presentarsi a quella banda di bambini che ora stanno saltando fra le tende, o a quella ragazzina che ieri girava attorno al cavo che sostiene il fumaiolo, veloce come in balia di un'invisibile giostra.» (Boris Pahor, Necropoli).

domenica 15 gennaio 2017

Promemoria per giorni di sole





Ricordati del freddo
e dei giorni passati,
- di come è sommerso il fiore
dalla neve, e tu scivoli
nel vizio del dolore, di come
è bianco il cielo e c'è silenzio
e le cose mostrano quiete
la loro disperata solitudine, -
quando c'è il sole,