martedì 4 novembre 2014

Nella notte



Una voce nella notte. Una stanza spoglia. Un registratore con dolci toni femminili (fantasma / fantasima / apparizione / madonna) risponde alla voce maschile: 

1) Una luce fagocita lenta le stelle e quei giorni scompaiono pigri nella memoria 
"Che giorno perfetto, così, che splendido giorno perfetto. Bruciata la materia della storia e il suo ricordo, disperso nell'acqua dove non restano che residui, rottami, il resto di una vita...". 

2) Perché ora ti sento qui, profondamente, nel ventre, che ti muovi dentro e tutto trascini con te come in un gorgo. 
"E' il vizio antico della memoria che torna e reclama per le tue dimenticanze, richiede un valore alle assenze, le incompiute azioni, il bacio mancato nella penombra degli occhi. Macina, macina, macina quella polvere, i fogli bagnati, i segnali mancati, le mani deluse... 

3) Non c'è niente e nessuno in queste pagine (nessuno bussa, nessuno invoca...), nessuno che sappia ancora com'era, lontano il bagliore, auto veloci e la pioggia che scorre leggera sui vetri. 
"No, non c'è più nessuno, lo sai, neanche io, neanche tu. E tutte le menzogne reclamano una verità e tutte le fughe una resa, l'ora dell'ultimo rigo in fondo alla pagina, la trave fondante, l'avanzo di noi, la macchia d'inchiostro caduta sul tavolo, il pezzo di legno che danza sull'acqua...". 

4) E' la notte che penetra a fondo nel giorno, volti smagriti, smarriti i nomi, nel vento: il libro bianco della memoria. 
" Bianco, irreale... Qui ha inizio la vita nuova o quella antica verniciata di fresco, ma dietro? Vecchi segni, incrostazioni, la macchia d'umido che non è mai andata via..."

(Voce) Sì, sì, lo so. Ma è che d'improvviso mi manchi, mentre cerco le tue ceneri stanche tra questi visi anonimi in mezzo a cui giro a vuoto nella ricerca disperata di ciò che era.. 
Ma cos'era, cos'era? 
Sì, sì, lo confesso, non è te che ricerco guardando nomi e lumini tra il caldo che inghiotte ogni odore, ogni speranza che sia fresco questo giorno, la penombra di te smarrita nell'oggi...
Sì, è vero, non è il presente ma nemmeno il ricordo di ieri che scavo tra volti stranieri, nomi, vite, speranze deluse («sarai sempre nei nostri cuori»). Ma Dante, e Shine, il capitano e il fuochista, dove sono finiti? Solo le parole che vivevo , la radice del sorriso nascosto di te, a cui ancora tendo anelante la vita perduta... 
Un urto, qualcosa che brucia nel sangue, il freddo che assale. Ma qui è un'altra vita, un altro luogo. 
Sì, sì, d'accordo, passo a passo, anche se non rispondi ed io non chiamo, nel vuoto, il rumore come un cancro che corrode, e rode, rode il cuore e più niente rimane, se non l'errore, il mentire, la paura. 
Sì. è così, il perdersi, tra queste tombe in fondo al mare dove non ci sei, oramai naufragata dentro me. 

(1999)

venerdì 24 ottobre 2014

Una città





Città, città, frenetico fragore -
da quale fondo di violenza inaudita,
da quale abuso sfrenato di potere
è venuto il tuo nome alla vita?
Città, città, malata nella carne,
le piaghe sull’asfalto come buchi nelle vene,
salotti ad uso del proprio mestiere.
Luminaria da operetta, come automi
i tuoi viventi, nelle pieghe del sociale,
tra i deliri di chi sale e di chi scende.
Città, città, di ludibrio e di cultura,
cantiere sempre aperto sopra un martoriato,
corpo da palazzi postfascisti risventrato,
ogni quartiere come un ragazzo abbandonato,
tuo sangue, vita, carne, strada macinata,
clacson urlanti, urenti sere, pozza urinata...

Città, città, assurda costruzione -
ma voi cosa vedete? Città, città,
città cosa? E cittadini di che?
Mia città, mia serranda che chiudi tutto,
tutto lasci fuori, quello che non comprendi,
quello che non ricordi, e niente apprendi.
Città, città balera, città galera
che muore a poco a poco, lentamente
con un tossire leggero, un ansimare,
città, insensata, città marcescente
che hai cari i denari, i circoli, i salotti
tu che non vedi e che non credi a niente -
schermi sul vuoto accesi, falso amore,
calci a un pallone, e del resto te ne fotti -
mentre intorno tutto muore e non lo sa,

mia città, mia vita storta, assurda età...

(1999)

domenica 12 ottobre 2014

Racconti PAZ




La storia inizia con un uomo. Un uomo che siede su una panchina. E mentre siede guarda intorno a sé e pensa. Pensa a com'era Montereale: le siepi squadrate, il verde curato, i fiori, la fontana, il laghetto, la pulizia, il trenino, il venditore col carretto, i bambini che giocavano... Ricorda le domeniche mattina e anche qualche filone a scuola, ricorda il proprio passato e vede un presente fatto di incuria e inciviltà. Vede le cose che ha amato abbandonate a se stesse, i cestini ricolmi di immondizia non svuotati, le carte buttate per terra, bottiglie, bicchieri, mozziconi di sigarette, cacche di cane.
C'è suo figlio che gioca con altri ragazzi, come lui tanti anni fa, ma il parco è diverso, non solo più...brutto, ma anche più pericoloso. La fontana bassa, al centro del parco, ha funzionato il tempo di un respiro. Ora l'acqua putrida ristagna e ci galleggia di tutto. Nel mezzo dei ferri appuntiti. Qualcuno potrebbe farsi male, qualcuno rischia davvero di farsi male, un bambino che salta dentro per giocare o per recuperare un pallone.
Ed allora inizia a parlare ad alta voce, il suo sogno, la sua follia coinvolge altri lì intorno, sia chi quei luoghi li abita ancora ed è cresciuto qui ed ha visto Montereale cambiare, ma anche chi qui non ci abita ma ne vede il degrado o chi non conosce nemmeno la città, chi si è trasferito da altri luoghi, da altri degradi.

La follia, il sogno si sa sono contagiosi. Si sa che c'è sempre bisogno di un sogno folle per far cambiare abitudini radicate.
La follia è quella di abbandonare i propri riti domenicali, le passeggiate, il riposo, e dedicare questo tempo al parco. La follia è ritagliarsi un'azione gratuita, non contabilizzata, da regalare alla città. La follia è strappare dalla bocca del leone del tempo numero, quantificato in ore, occupato dal lavoro, un tempo diverso in cui non conti il correre, l'affrettarsi che l'onestà dismaga, ma il ritmo lento del nostro respiro, la parola non prostituita, il sorriso amicale del compagno che lavora al tuo fianco, il silenzio degli alberi e l'odore dei fiori.
È un riappropriarsi di se stessi, del proprio tempo e della città, quella follia, è aprire finestre, mondi, cieli nel pensiero ristretto del nostro egoismo, del “non mi compete”.

Ecco: il sogno nel 2012 si concretizza. Quelle donne, quegli uomini creano un'associazione e si mettono, ogni domenica mattina, che ci sia il sole o la pioggia, che si sia da soli o in gruppo, a raccogliere l'immondizia, tagliare rovi, piantare fiori... Si mettono ad immaginare un luogo diverso in cui ci si relazioni con le altre associazioni, con la città, in cui il luogo diventi accoglienza, suoni, racconti, vita.
È così che nasce questa aiuola, a sostituire una fontana diventata pericolosa ed insalubre. È così che nasce anche questa giornata. È così che nascono le domeniche PAZ, fatte di zappa, cesoie, cestini, guanti ma anche parole e sorrisi. Ed è proprio per questo che ci siamo autodefiniti PAZ (Potentini Armati di Zappa, ma anche Poetici Alienati Zappatori, o qualunque altra cosa vi venga in mente con queste iniziali). Dovevamo essere Cittadini Armati di Zappa, ma l'acronimo suonava un po' male...

Ecco, questo è un racconto PAZ. Altri li lasciamo la domenica sera, dopo la giornata trascorsa ad occuparci del parco, sulla pagina facebook, sul sito...
Ma soprattutto i nostri commenti, le nostre idee sono quelli della domenica mattina, qui, ad occuparci del parco, tra il tagliare rovi e polloni, rasare l'erba, spazzare, raccogliere carte e sigarette, qui, in questi momenti nasce l'idea che abbiamo di città, di comunità. Con quei pochi mezzi e con la nostra follia che ci accompagna.

Questa giornata nasce innanzitutto come rapporto tra amici, condivisione tra le persone di una stessa idea di luogo non solo da attraversare, ma da vivere. Quindi amicizia, innanzitutto, di persone che si sono trovate riunite intorno ad un'idea. E poi amore, amore per un luogo, per quello che è un simbolo della nostra città. Non ho usato casualmente queste due parole. Amore ed amicizia sono quelle che hanno guidato noi ad organizzare questa giornata e, mi piace pensare, voi ad essere qui oggi. Grazie.


sabato 4 ottobre 2014

In memoria



Sei morta di dicembre. Come al solito non hai voluto disturbare, con quella tua aria seria increspata appena dal sorriso che ti illuminava l’angolo degli occhi.

C’è stato vento stanotte. L’antenna che implacabile pende sulle nostre teste ha sbattuto di continuo. Sembrava una voce che chiamasse, nel buio, che chiedesse ragioni ad un cielo muto.

Sei morta di dicembre. Tutta la città è illuminata per la festa imminente. Per la strada le luci formano un tappeto volante, sui palazzi brillano le finestre incorniciate. Tu non hai voluto disturbare il natale, sei morta prima, di sera.

C’è stato gran vento. Dalla finestra osservavo le cime squassate. Ululavano. Tutta la città gridava. Gridava una rabbia impotente. Pioggia dal cielo. Pioggia, pioggia, pioggia. E non c’è pace.

Sei morta sul far della notte. I bambini a letto, che è tardi. I ragazzi a casa a studiare o davanti alla tele. Qualcuno nei pub tra chiacchiere amiche. Pochi per strada. Troppo freddo anche per una risata.

Siamo pochi qui fuori che esorcizziamo la morte dicendo cazzate. Si cerca di ridere per buttare giù le lacrime, ma la voce ci svela. Rivela quel pianto nascosto che esplode. No, ragazzi, no, non c’è vergogna in queste lacrime, non andate da soli nell’angolo. Stanotte facciamoci gruppo, stringiamo le mani, gridiamo, piangiamo insieme. Che il calore dei corpi vinca il gelo dei cuori.

Strappata, strappata via. Pezzo a pezzo. Cosa rimane di te. Ti hanno portato via tutto. Metastasi diffuse nel corpo. Il corpo, ah, il corpo. Derubato di sangue, derubato di vita. Cacciata, cacciata via a morsi e schiaffi dalla vita.

Michele ha tossito tutta la notte. Mi alzo, lo prendo in braccio, lo cullo. Gli dico che tutto va bene. Mi dice di restare con lui stanotte. Tutto va bene, Michele, tutto è tranquillo. Anche se il rumore del vento penetra fin dentro le mura, anche se la pioggia cade battente sui vetri, anche se quel rombo sordo di antenna non smette, no, non smette mai, pur se cala il vento…

Sei morta il 5 dicembre, di sera, in ospedale. Da quanto rinchiusa? Da più di un mese e non ne sei più uscita. L’altalena di notizie ti ha fatta vivere, poi morire, poi vivere di nuovo. Ora non più. Aspetto, nella classe vuota, di venirti a vedere per un ultimo saluto. Ti voglio bene. Può bastare?

Perché scrivere? Perché non so fare altro, non so darvi conforto, anch’io piango come un fanciullo, l’ho sempre fatto, perché non so dare ragione alla morte. Elaboro il lutto così e vi sono vicino.

Di’, la ricordi attenta e composta lì davanti e quando un sorriso ingenuo le apriva le labbra ad un sì? E le parole sprecate in progetti, il futuro dietro l’angolo di un solo anno, di’, le ricordi?

E la gente corre per negozi, a teatro, a casa, dimentica di noi qui a San Francesco, su questo marmo, a piangere, a dire parole, a far passare la notte.

Quante giovani vite ancora sprecate sull’altare della vita? Che senso queste morti? Che spreco, Dio mio, che spreco. Non so pensare ad altro.

Fa freddo. Sul diario scolastico dell’anno prossimo ancora una pagina per ricordo? Fa freddo. Che faremo domani? I bambini, gli amici, le verifiche a scuola… Fa freddo, Filomena, e non vuole passare.

No, non passa, non passa mai se ogni morte riporta con sé, in eterno, tutte le altre vissute, ed i conti non tornano. La veglia al Gemelli, i fiori al Fatebenefratelli, la fuga dall’albergo per Volla. È questo che resta? Il tuo sorriso.

Stanotte ti ho sognata. Giocavi a basket con le amiche. Tre contro tre. Poi non c’eri più. Solo un groppo in gola mentre si continuava a giocare…

Dormi. Il viso ricomposto. Dolce come sei, da sempre.
Dormi. Ti fanno corona le lacrime, parole sussurrate nell’ombra, per non svegliarti.
Dormi. E mi avvicino in punta di piedi per guardarti ancora una volta.

Tua madre. I tuoi amici. I tuoi parenti. È un dedalo questo luogo, questa morgue. Per arrivare a te si attraversano stanze di pena. Si seguono i lamenti, i singhiozzi. Ma come si fa a sorridere qui? Anche il Cristo, crocifisso, ha il volto del dolore. Per arrivare a te si attraversano volti ed è così che giungo al tuo.

Ma no, non sei tu lì distesa. No. È un corpo ma non sei tu.

Ognuno porta di te qualcosa. Io ho rubato un sorriso, ho strappato, dalla bocca del leone, questo misero resto e mi basta, mi deve bastare. È un brandello che ti rende viva in me quel sorriso discreto, quella luce negli occhi.

C’è un intero paese che ti piange in questo cielo terso, in questo freddo pungente.

Sei morta in dicembre, il mese della speranza: dies natalis, feste, tredicesima… Volevi studiare. Ti piaceva la tua vita. Ma ora, Filomena, la tua vita non potrà più essere contabilizzata, in industrie, sei fuori mercato, libera.


Ed io vorrei tu fossi qui.  

(2005)

venerdì 3 ottobre 2014

Naufragi



«Mi chiedi del naufragio, un naufragio che è già in atto da tempo. Ma io non so scrivere di naufragi né di altro. Navigo a vista, osservando quello che conosco, senza un porto sicuro verso cui dirigere, ed anche il luogo dal quale sono partito l'ho dimenticato. Ripeto, navigo a vista, osservo, intorno, le zattere degli amici: alcune mi fanno compagnia, altre sono scomparse da tempo sommerse dai flutti, altre ancora hanno raggiunto il loro porto sicuro o ci navigano verso. Io solo aspetto, "teso all'ascolto, col fiato sospeso".
Ora che non c'è vento posso parlare, perché la voce non si disperde. Quando si alza il vento, o tra le zattere passano barche a motore, null'altro si sente se non un rombo di tempesta e il gridare di noi è vuoto, ci ritorna contro come, come il dolore di una ferita riaperta. Ma ora non c'è vento e posso chiamare il compagno per nome, scambiare un saluto dalla distanza, ricevere un sorriso d'intesa.
No, non c'è naufragio, ma lento andare alla deriva, quasi senza accorgersene, con i brandelli di memoria a tenerci compagnia nell'attesa che arrivi la notte. Sono la nostra forza, la nostra miseria, il resto della giornata appena trascorsa. Se fosse naufragio non ci sarebbe tempo di pensare: solo un grido e poi uno scendere a fondo, "nel gorgo, muti". Ma qui c'è spazio ai pensieri, giorno dopo giorno, domani dopo domani, e poi l'altro e l'altro ancora. Tutto uguale, nulla muta, nemmeno la speranza, straziante, che l'amore possa salvarci, un amore. L'inganno è sperare che qualcosa muti, che ci sia ancora tempo per un altro bacio e un altro addio, ma non c'è mai tempo, perduto dietro il niente... forse ne abbiamo troppo.
Ma non era questo, aspetta, che volevo dire, sì, il naufragio, IL naufragio.
Non è il Luogo, Meta, Porto che cerco, quello dietro cui, perduti, troppo spesso dimentichiamo il luogo di passaggio, questo mare. Non è di passaggio, è altro. Ci sono colori e odori che non cogli se non butti un sasso legato, una pietra per fermarti; ci sono pesci che non vedi se guardi troppo lontano o troppo in alto o anche solo se guardi esclusivamente la tua zattera.
Soffermarsi, questo cerco, nel naufragio di ogni giorno. Ma questo è il sogno del naufrago, la sua scusa banale all'incapacità della rotta. La notte mi smentisce quando, da solo con le stelle, sono preso dall'angoscia dell'oggi, dall'inquietudine che il nulla porta con sé.
La notte mi smentisce e mi accusa di questa accidia, della stanchezza, della fuga, dell'inedia, dell'orrore, dell'errore... Arriva improvvisa, dopo un tramonto che promette gioie inattese, riposo ai desideri. La notte getta la maschera, l'iceberg è davanti e non c'è nascondiglio. Enorme biancheggia la luna o il suo riflesso, ma intorno è buio, e sei solo coi tuoi pensieri e il tuo iceberg nel cuore. E aspetto, aspetto sempre l'alba, tremando, pregando che arrivi presto a dissolvere le paure dell'essere perso in un universo sconosciuto, tra volti anonimi, nel vuoto.
Poi arriva l'alba.
Ma forse confondo, forse nel naufragio siamo tutti, persi, dispersi dietro un sogno, una speranza, un'illusione, ognuno con le sue certezze ("credo, anzi ne sono certo, è così...") e al porto sono io, il porto della disillusione. Ma davvero credo che nel naufragio ci sia il mondo intero che corre veloce tra guerre, distruzioni, incomunicabilità, consumismo, orrori vari del nostro tempo, mentre prosegue, come sempre, "la festa in prima classe".
Se c'è il racconto di un naufragio che ben indica il nostro oggi quotidiano è quello del Titanic (narrato poeticamente da H. M. Enzensberger: mentre la nave affonda l'orchestra continua a suonare e sui battelli si salva la prima classe o i furbi o gli armatori corrotti). Che altro naufragio narrare dopo questo? Non li rappresenta tutti i nostri piccoli naufragi quotidiani? Il naufragio di un amore, di un sogno, di un lavoro, di una fede, di un ideale, di noi stessi. Non rappresenta il naufragio di un'epoca che oggi vive il suo trionfo? Non siamo già naufragati tutti ed il resto è solo sogno, il sogno che non sia già troppo tardi? Vorrei credere che non sia questa la fine che ci sia spazio al NOI e che sia infine spento questo egoismo che pure mi appartiene.
Banalità, dirai. Io davvero non so. Ma cosa sono, allora, tutti questi relitti che danzano nell'acqua?
Foto ingiallite, pezzi di legno, ritagli di giornale, valigie vuoto, un maglione inzuppato, biglietti di auguri, fiori secchi, lettere d'amore... Oggetti di una vita dispersi tra altri mille e niente conta più davvero, nemmeno quel sogno a cui ostinatamente ci lega lo sguardo puro di un io ragazzo.
Ma io ti dovevo parlare di un naufragio e non so, invece, di cosa ho vaneggiato, qui, da questa mia solitudine.
Dalla mia zattera, a voi, felice viaggio, in attesa di una terra».

Conclusione provvisoria
E allora. Non so bene cosa dirti, oggi. E' che mi sento strano, senza riferimenti, una sorta di naufrago che ha intorno solo mare. Dovrei navigare a vista, smetterla di sognare le isole tropicali piene di palme e bambù, luoghi a misura d'uomo in cui gli incontri sono veri, ma non riesco.

Lontani i porti, io rimango nella bonaccia di settembre a guardare le nuvole che annunciano pioggia.

(1999)

sabato 27 settembre 2014

Rosa d'ombre



Ci sono giorni in cui ti svegli con il senso del tempo alterato. È la tua infanzia che ti siede accanto con gli occhi di una bambina che ti guarda senza parlare: adolescenza sgraziata, immagini sporche di riviste rubate, tremore e rossore ed un cielo sconosciuto che diventa distanza; o quella nel buio nella stanza sei tu che mi segui sempre, come un’ombra seconda che carezza l’anima e dice «ancora, ricorda ancora, più giù, fin nel fondo, e ripeti con me…». (E se fosse paura o senso di colpa che mi sospinge sempre a vele spiegate verso l’elegia?). Ed eccoti qui:

Sorriso a labbra strette,
occhi sospesi nel tramonto prima della sera,
la paura che ci prende al confine del buio.

Sul far dell’alba, lo sguardo attento e le labbra sottili, tratto di matita sul foglio, e il sorriso che esplode improvviso, baci sul collo indifferente e occhi indiscreti, la mano sul pube, il tuo corpo bambino e la voce che ripete il mio nome. Dov’è ora il tuo sguardo triste e il cristallo della risata che s’infrange? Ho aspettato per anni, davanti a telefoni muti, uno squillo e la tua voce distante, fino a quando hai detto «non posso…». Chissà se, attaccando, pensasti: «Finalmente, non ne potevo più di tanta poesia…», baciando quell’altro, più giovane. Sei davvero tu che vivi nel ricordo? O è un simulacro di te che faccio parlare? Ma tu non rispondi…

Basta a salvare quel volo abortito
un gesto improvviso che erode certezze?

Se solo rimane la fame oscena di amore, se ritorni, nel mio deragliare, a cercare un varco, lo scarto dai binari, oppure di nuovo mi tendi un sorriso, quale parola possiamo trovare che non sappia di marcio?

Eppure ancora la luna illumina chiara
quel grido d’amore sul volo caduto.

Tu lo sai. Ci sono parole che dilaniano, parole che cambiano ogni giorno e ci cambiano, metamorfiche…

La luna piena e tu inebriata
ballavi tra i rami di noce.

O forse no, forse non c’era la luna, ma era un giorno di pioggia, di quelli grigi, inutili, in cui niente vorremmo che accadesse ed invece cambia il mondo, e tu (ma chi tu?) non eri che un’ombra di me stesso che ascoltavi senza parlare mimando i miei gesti... (Cosa diresti ora tu? Che forse ero io a non essere altro che un’ombra, il riflesso di te che parlavi, parlavi sempre, ed io ad ascoltare, assentire, smarrito in un dedalo, prigioniero d’ossessioni senza futuro).
È il vizio antico della memoria che torna e reclama per le mie dimenticanze, richiede un valore alle assenze, le azioni incompiute, il bacio tentato nella penombra degli occhi. Macina, macina, macina quella polvere, i fogli bagnati, i segnali mancati, le delusioni...
Chi sei? La donna delle stelle cadute, delle mille parole che aspettavano l’alba? Li ricordi ancora quei baci? Ma tu non ricordi… E parole, sempre più distanti, di un amore perduto. Quanto seme gettato, amore dissipato… Ma non sei sola nell’informe ventre della notte. Sguardi diversi, lacrime, parole...
La quotidianità trascorsa con te, gli anni che passano, la semplicità dei gesti, la famiglia e le vacanze. Ma parole sempre più rare, difficili addii nella stanchezza dell’oggi. E quanta miseria... Certe volte bisogna essere spietati, come solo un maschio sa essere, per salvare futuro e speranza.
Oh, donna gentile: fughe e rincorse, sesso cercato con foga, sguardi da cui nascondersi, giorni rubati, amplessi gioiosi fino alle lacrime di rabbia e violenza. Infine la durezza dello sguardo. Eppure ancora ne ardo…
Tu, sempre tu, che corri ragazza sul ponte, ma tacchi a spillo ti tengono in equilibrio instabile e sorridi triste sui capelli perduti nella penombra della casa mentre ti guardo stupito e ti bacio. Tu che torni come un vizio. Meraviglia che balli tra rami e pioggia e gridi la tua rabbia di vita. La morte, il suo volto e improvviso la notte ai tuoi occhi.

Eppure io non capivo il gesto del capo,
- piegandosi piano al raggio di sole
stanco di penombra ammuffita -
che chiedeva ragione di silenzi improvvisi,
di occhi smarriti
che cercavano altri sguardi,
un segno di vita
che a te lentamente mancava.

E quando ballavi scomposta
tra alberi erosi dal vento
mentre pioggia inattesa bagnava i tuoi resti,
ancora mi fermavo stupito
- e ridevo.

Parole - che tu non volevi sentire -
il mio unico dono,
oppio che stordiva la mente
di te che gridavi,
che chiedevi la mano di me
- misero arbusto a cui ti attaccavi
mentre il giorno moriva -
che chiedevo la vita.

Ma qui non c’è elegia che tenga. È solo che passano gli anni e posso parlare. Perché di tutto alla fine riusciamo a parlare, per fortuna. Anche di ciò che ci ha annichilito. È che d’improvviso mi manchi, mentre cerco le tue ceneri stanche tra questi visi anonimi in mezzo a cui giro a vuoto nella ricerca disperata di ciò che era. Ma cos’era, cos’è?
Sì, sì, lo confesso, non è te che ricerco guardando nomi e lumini tra il caldo che in-ghiotte ogni odore, ogni speranza che sia fresco questo giorno, la penombra di te smarrita nell’oggi... Sì, è vero, non è il presente ma nemmeno il ricordo di ieri che scavo tra volti stranieri, nomi, vite, speranze deluse («sarai sempre nei nostri cuori»). Ma dove sono finiti tutti quei volti? Solo le parole che vivevo, la radice del sorriso nascosto di te, a cui ancora tendo anelante la vita perduta... Un urto, qualcosa che brucia nel sangue, il freddo che assale. Ma qui è un’altra vita, un altro luogo.
D’accordo, passo a passo, anche se non rispondi ed io non chiamo, nel vuoto, il ru-more come un cancro che corrode, e rode, rode il cuore e più niente rimane, se non l’errore, la paura. Odi? Sì, è così, il perdersi tra queste tombe, dove non ci sei, oramai naufragata nell’abisso del cuore.
E trovo: te, sgraziato stupore, che mi cammini accanto e mi rechi ancora un sorriso e un rimprovero, e mi chiedi di essere ora, infine, adulto, senza più infingimenti, e mi strappi ancora di bocca timide parole d’amore, dagli occhi un pianto che vorrei tenero, dal cuore il desiderio di tranquillità. Porti via, intanto, gli altri visi che compongono il mosaico del tuo volto: quelli sottili e attenti che chiedevano parole e cuore o solo un maestro, un compagno, un amico; quelli luminosi ma segnati dal tempo, che chiedevano un ultimo soffio di vita; quelli ridenti o pallidi, solcati dal pianto, che chiedevano spiegazione del silenzio e cercavano solo risposte; quelli rossi di desiderio; quelli in cui c’era solo una domanda; quelli muti… Di tutti, oggi, sei tu il senso e la risposta. Questo mi ripeto ostinatamente. Poi, però, mi accorgo che la sintesi è solo mia, come sempre. E che questo è consolatorio, perché è un modo per illudermi che ogni tessera amorosa componga un disegno finale. E se invece ogni storia che ho vissuto fosse una possibilità esperita solo in parte, e di cui non saprò mai la conclusione? E perché avverto il bisogno di una sintesi finale, di un volto che ricapitoli tutti i volti? Ho amato volti diversi, sono stato molti io diversi. Ora abito un volto, sono quest’io. Domani non so:

Dal vertice dei monti mi lancio
nel lago leggero dei tuoi occhi,
al vento confidando,
che è amico degli amanti, e alle ali
d’un cuore rinnovato dal tuo sguardo.

Da tronchi inceneriti docile
m’affido ad altre leggi.

E se la morte avrà il tuo volto
io benedirò cadendo.


Alla fine mi chiedo a chi ho parlato. A tutti i “tu” (al TU) della mia memoria o della mia speranza? O solo a me stesso o ai fantasmi che custodisco geloso?
«Ripeness is all». Un’altra voce (davvero altra, stavolta) ripete da giorni lontani. Ma tu non ci sei…




Questo "esperimento" nacque all'interno dell'esperienza di "Soglie", webzine creata da me, Nicola Sguera, Enzo Pellegrini, Maria Domenica Savoia e Nunzio Castaldi. Io e Nicola provammo a scrivere a partire dai testi dell'altro... Attribuimmo l'opera a Michael Sendivogius, alchimista.

domenica 21 settembre 2014

«E la morte non avrà più dominio»




Se ripenso al passato credo che la prima coscienza della morte sia avvenuta in terza media. La mattina avevamo avuto notizia che era morto il nonno, che in estate avevo avuto modo di incontrare in ospedale. 
(In quella occasione mi aveva sussurrato poche parole a cui non avevo dato peso e che poi, negli anni, ho cercato di ricostruire. Oggi penso che non fossero altro che comuni raccomandazioni a comportarmi bene, a fare il bravo...).

A scuola non c'era la nostra docente di Italiano ma una supplente che ci chiese di scrivere di un avvenimento che ci era accaduto. Costretto, nel silenzio di quell'ora, a pensare, scrissi del nonno e del mio sentimento di dolore gridando, ad un cielo già muto, la richiesta di far morire me prima di veder perire altri cari.

(La mia preghiera non è stata esaudita. Negli anni altre persone care sono andate via. I loro nomi sono incisi in me come croci. Il ricordo è l'unico atto di religiosa pietà che mi è rimasto. Ma non è questo il momento per parlare di loro).

Oggi ripenso a quel primo incontro, allo stupore attonito che riprovo oggi. Ancora una mattina, ancora una telefonata, ancora mentre vado a scuola. Si ripetono gli atti esterni e con loro lo stupore della perdita. No, non c'è ancora perdita, c'è l'ictus, il coma, la lunga operazione, l'attesa...
Eppure io prego ancora, ma prego perché non si salvi, perché quell'uomo forte abbia pace e non sia costretto a rimanere immobile, demente, afasico o non so che altro. Chiedo che non si svegli, nonostante il suo corpo resista ancora, perché nella sua vita ha visto realizzati i suoi sogni (le figlie laureate e con un lavoro, una casa per ognuna di loro e per sé, la campagna e i prodotti della propria fatica, gli amici, i nipoti...), perché non c'è altro da chiedere o da lasciare indietro (se non una moglie disperata, ma sarebbe diverso con lui vivo incapace all'azione e alla parola?). (29 aprile 2012)


Questo scrivevo una vita fa. Lo scritto è rimasto come bozza per due anni. Lo pubblico oggi, così come scritto quel giorno, quando la sua vita rimase a metà, senza parole, su un letto, come vuoto contenitore. Ora che è morto ed è stato pianto, sia pace per chi rimane.
Anche quest'anno, lo sai, ti abbiamo ricordato nei piccoli gesti del fare la salsa, parlando di te tra bottiglie e pomodori. Così, mi piace pensare, ti sarebbe piaciuto che trascorresse il tuo ricordo, non con visite ad una tomba, ma con i gesti di chi hai amato.