venerdì 24 ottobre 2014

Una città





Città, città, frenetico fragore -
da quale fondo di violenza inaudita,
da quale abuso sfrenato di potere
è venuto il tuo nome alla vita?
Città, città, malata nella carne,
le piaghe sull’asfalto come buchi nelle vene,
salotti ad uso del proprio mestiere.
Luminaria da operetta, come automi
i tuoi viventi, nelle pieghe del sociale,
tra i deliri di chi sale e di chi scende.
Città, città, di ludibrio e di cultura,
cantiere sempre aperto sopra un martoriato,
corpo da palazzi postfascisti risventrato,
ogni quartiere come un ragazzo abbandonato,
tuo sangue, vita, carne, strada macinata,
clacson urlanti, urenti sere, pozza urinata...

Città, città, assurda costruzione -
ma voi cosa vedete? Città, città,
città cosa? E cittadini di che?
Mia città, mia serranda che chiudi tutto,
tutto lasci fuori, quello che non comprendi,
quello che non ricordi, e niente apprendi.
Città, città balera, città galera
che muore a poco a poco, lentamente
con un tossire leggero, un ansimare,
città, insensata, città marcescente
che hai cari i denari, i circoli, i salotti
tu che non vedi e che non credi a niente -
schermi sul vuoto accesi, falso amore,
calci a un pallone, e del resto te ne fotti -
mentre intorno tutto muore e non lo sa,

mia città, mia vita storta, assurda età...

(1999)

domenica 12 ottobre 2014

Racconti PAZ




La storia inizia con un uomo. Un uomo che siede su una panchina. E mentre siede guarda intorno a sé e pensa. Pensa a com'era Montereale: le siepi squadrate, il verde curato, i fiori, la fontana, il laghetto, la pulizia, il trenino, il venditore col carretto, i bambini che giocavano... Ricorda le domeniche mattina e anche qualche filone a scuola, ricorda il proprio passato e vede un presente fatto di incuria e inciviltà. Vede le cose che ha amato abbandonate a se stesse, i cestini ricolmi di immondizia non svuotati, le carte buttate per terra, bottiglie, bicchieri, mozziconi di sigarette, cacche di cane.
C'è suo figlio che gioca con altri ragazzi, come lui tanti anni fa, ma il parco è diverso, non solo più...brutto, ma anche più pericoloso. La fontana bassa, al centro del parco, ha funzionato il tempo di un respiro. Ora l'acqua putrida ristagna e ci galleggia di tutto. Nel mezzo dei ferri appuntiti. Qualcuno potrebbe farsi male, qualcuno rischia davvero di farsi male, un bambino che salta dentro per giocare o per recuperare un pallone.
Ed allora inizia a parlare ad alta voce, il suo sogno, la sua follia coinvolge altri lì intorno, sia chi quei luoghi li abita ancora ed è cresciuto qui ed ha visto Montereale cambiare, ma anche chi qui non ci abita ma ne vede il degrado o chi non conosce nemmeno la città, chi si è trasferito da altri luoghi, da altri degradi.

La follia, il sogno si sa sono contagiosi. Si sa che c'è sempre bisogno di un sogno folle per far cambiare abitudini radicate.
La follia è quella di abbandonare i propri riti domenicali, le passeggiate, il riposo, e dedicare questo tempo al parco. La follia è ritagliarsi un'azione gratuita, non contabilizzata, da regalare alla città. La follia è strappare dalla bocca del leone del tempo numero, quantificato in ore, occupato dal lavoro, un tempo diverso in cui non conti il correre, l'affrettarsi che l'onestà dismaga, ma il ritmo lento del nostro respiro, la parola non prostituita, il sorriso amicale del compagno che lavora al tuo fianco, il silenzio degli alberi e l'odore dei fiori.
È un riappropriarsi di se stessi, del proprio tempo e della città, quella follia, è aprire finestre, mondi, cieli nel pensiero ristretto del nostro egoismo, del “non mi compete”.

Ecco: il sogno nel 2012 si concretizza. Quelle donne, quegli uomini creano un'associazione e si mettono, ogni domenica mattina, che ci sia il sole o la pioggia, che si sia da soli o in gruppo, a raccogliere l'immondizia, tagliare rovi, piantare fiori... Si mettono ad immaginare un luogo diverso in cui ci si relazioni con le altre associazioni, con la città, in cui il luogo diventi accoglienza, suoni, racconti, vita.
È così che nasce questa aiuola, a sostituire una fontana diventata pericolosa ed insalubre. È così che nasce anche questa giornata. È così che nascono le domeniche PAZ, fatte di zappa, cesoie, cestini, guanti ma anche parole e sorrisi. Ed è proprio per questo che ci siamo autodefiniti PAZ (Potentini Armati di Zappa, ma anche Poetici Alienati Zappatori, o qualunque altra cosa vi venga in mente con queste iniziali). Dovevamo essere Cittadini Armati di Zappa, ma l'acronimo suonava un po' male...

Ecco, questo è un racconto PAZ. Altri li lasciamo la domenica sera, dopo la giornata trascorsa ad occuparci del parco, sulla pagina facebook, sul sito...
Ma soprattutto i nostri commenti, le nostre idee sono quelli della domenica mattina, qui, ad occuparci del parco, tra il tagliare rovi e polloni, rasare l'erba, spazzare, raccogliere carte e sigarette, qui, in questi momenti nasce l'idea che abbiamo di città, di comunità. Con quei pochi mezzi e con la nostra follia che ci accompagna.

Questa giornata nasce innanzitutto come rapporto tra amici, condivisione tra le persone di una stessa idea di luogo non solo da attraversare, ma da vivere. Quindi amicizia, innanzitutto, di persone che si sono trovate riunite intorno ad un'idea. E poi amore, amore per un luogo, per quello che è un simbolo della nostra città. Non ho usato casualmente queste due parole. Amore ed amicizia sono quelle che hanno guidato noi ad organizzare questa giornata e, mi piace pensare, voi ad essere qui oggi. Grazie.


sabato 4 ottobre 2014

In memoria



Sei morta di dicembre. Come al solito non hai voluto disturbare, con quella tua aria seria increspata appena dal sorriso che ti illuminava l’angolo degli occhi.

C’è stato vento stanotte. L’antenna che implacabile pende sulle nostre teste ha sbattuto di continuo. Sembrava una voce che chiamasse, nel buio, che chiedesse ragioni ad un cielo muto.

Sei morta di dicembre. Tutta la città è illuminata per la festa imminente. Per la strada le luci formano un tappeto volante, sui palazzi brillano le finestre incorniciate. Tu non hai voluto disturbare il natale, sei morta prima, di sera.

C’è stato gran vento. Dalla finestra osservavo le cime squassate. Ululavano. Tutta la città gridava. Gridava una rabbia impotente. Pioggia dal cielo. Pioggia, pioggia, pioggia. E non c’è pace.

Sei morta sul far della notte. I bambini a letto, che è tardi. I ragazzi a casa a studiare o davanti alla tele. Qualcuno nei pub tra chiacchiere amiche. Pochi per strada. Troppo freddo anche per una risata.

Siamo pochi qui fuori che esorcizziamo la morte dicendo cazzate. Si cerca di ridere per buttare giù le lacrime, ma la voce ci svela. Rivela quel pianto nascosto che esplode. No, ragazzi, no, non c’è vergogna in queste lacrime, non andate da soli nell’angolo. Stanotte facciamoci gruppo, stringiamo le mani, gridiamo, piangiamo insieme. Che il calore dei corpi vinca il gelo dei cuori.

Strappata, strappata via. Pezzo a pezzo. Cosa rimane di te. Ti hanno portato via tutto. Metastasi diffuse nel corpo. Il corpo, ah, il corpo. Derubato di sangue, derubato di vita. Cacciata, cacciata via a morsi e schiaffi dalla vita.

Michele ha tossito tutta la notte. Mi alzo, lo prendo in braccio, lo cullo. Gli dico che tutto va bene. Mi dice di restare con lui stanotte. Tutto va bene, Michele, tutto è tranquillo. Anche se il rumore del vento penetra fin dentro le mura, anche se la pioggia cade battente sui vetri, anche se quel rombo sordo di antenna non smette, no, non smette mai, pur se cala il vento…

Sei morta il 5 dicembre, di sera, in ospedale. Da quanto rinchiusa? Da più di un mese e non ne sei più uscita. L’altalena di notizie ti ha fatta vivere, poi morire, poi vivere di nuovo. Ora non più. Aspetto, nella classe vuota, di venirti a vedere per un ultimo saluto. Ti voglio bene. Può bastare?

Perché scrivere? Perché non so fare altro, non so darvi conforto, anch’io piango come un fanciullo, l’ho sempre fatto, perché non so dare ragione alla morte. Elaboro il lutto così e vi sono vicino.

Di’, la ricordi attenta e composta lì davanti e quando un sorriso ingenuo le apriva le labbra ad un sì? E le parole sprecate in progetti, il futuro dietro l’angolo di un solo anno, di’, le ricordi?

E la gente corre per negozi, a teatro, a casa, dimentica di noi qui a San Francesco, su questo marmo, a piangere, a dire parole, a far passare la notte.

Quante giovani vite ancora sprecate sull’altare della vita? Che senso queste morti? Che spreco, Dio mio, che spreco. Non so pensare ad altro.

Fa freddo. Sul diario scolastico dell’anno prossimo ancora una pagina per ricordo? Fa freddo. Che faremo domani? I bambini, gli amici, le verifiche a scuola… Fa freddo, Filomena, e non vuole passare.

No, non passa, non passa mai se ogni morte riporta con sé, in eterno, tutte le altre vissute, ed i conti non tornano. La veglia al Gemelli, i fiori al Fatebenefratelli, la fuga dall’albergo per Volla. È questo che resta? Il tuo sorriso.

Stanotte ti ho sognata. Giocavi a basket con le amiche. Tre contro tre. Poi non c’eri più. Solo un groppo in gola mentre si continuava a giocare…

Dormi. Il viso ricomposto. Dolce come sei, da sempre.
Dormi. Ti fanno corona le lacrime, parole sussurrate nell’ombra, per non svegliarti.
Dormi. E mi avvicino in punta di piedi per guardarti ancora una volta.

Tua madre. I tuoi amici. I tuoi parenti. È un dedalo questo luogo, questa morgue. Per arrivare a te si attraversano stanze di pena. Si seguono i lamenti, i singhiozzi. Ma come si fa a sorridere qui? Anche il Cristo, crocifisso, ha il volto del dolore. Per arrivare a te si attraversano volti ed è così che giungo al tuo.

Ma no, non sei tu lì distesa. No. È un corpo ma non sei tu.

Ognuno porta di te qualcosa. Io ho rubato un sorriso, ho strappato, dalla bocca del leone, questo misero resto e mi basta, mi deve bastare. È un brandello che ti rende viva in me quel sorriso discreto, quella luce negli occhi.

C’è un intero paese che ti piange in questo cielo terso, in questo freddo pungente.

Sei morta in dicembre, il mese della speranza: dies natalis, feste, tredicesima… Volevi studiare. Ti piaceva la tua vita. Ma ora, Filomena, la tua vita non potrà più essere contabilizzata, in industrie, sei fuori mercato, libera.


Ed io vorrei tu fossi qui.  

(2005)

venerdì 3 ottobre 2014

Naufragi



«Mi chiedi del naufragio, un naufragio che è già in atto da tempo. Ma io non so scrivere di naufragi né di altro. Navigo a vista, osservando quello che conosco, senza un porto sicuro verso cui dirigere, ed anche il luogo dal quale sono partito l'ho dimenticato. Ripeto, navigo a vista, osservo, intorno, le zattere degli amici: alcune mi fanno compagnia, altre sono scomparse da tempo sommerse dai flutti, altre ancora hanno raggiunto il loro porto sicuro o ci navigano verso. Io solo aspetto, "teso all'ascolto, col fiato sospeso".
Ora che non c'è vento posso parlare, perché la voce non si disperde. Quando si alza il vento, o tra le zattere passano barche a motore, null'altro si sente se non un rombo di tempesta e il gridare di noi è vuoto, ci ritorna contro come, come il dolore di una ferita riaperta. Ma ora non c'è vento e posso chiamare il compagno per nome, scambiare un saluto dalla distanza, ricevere un sorriso d'intesa.
No, non c'è naufragio, ma lento andare alla deriva, quasi senza accorgersene, con i brandelli di memoria a tenerci compagnia nell'attesa che arrivi la notte. Sono la nostra forza, la nostra miseria, il resto della giornata appena trascorsa. Se fosse naufragio non ci sarebbe tempo di pensare: solo un grido e poi uno scendere a fondo, "nel gorgo, muti". Ma qui c'è spazio ai pensieri, giorno dopo giorno, domani dopo domani, e poi l'altro e l'altro ancora. Tutto uguale, nulla muta, nemmeno la speranza, straziante, che l'amore possa salvarci, un amore. L'inganno è sperare che qualcosa muti, che ci sia ancora tempo per un altro bacio e un altro addio, ma non c'è mai tempo, perduto dietro il niente... forse ne abbiamo troppo.
Ma non era questo, aspetta, che volevo dire, sì, il naufragio, IL naufragio.
Non è il Luogo, Meta, Porto che cerco, quello dietro cui, perduti, troppo spesso dimentichiamo il luogo di passaggio, questo mare. Non è di passaggio, è altro. Ci sono colori e odori che non cogli se non butti un sasso legato, una pietra per fermarti; ci sono pesci che non vedi se guardi troppo lontano o troppo in alto o anche solo se guardi esclusivamente la tua zattera.
Soffermarsi, questo cerco, nel naufragio di ogni giorno. Ma questo è il sogno del naufrago, la sua scusa banale all'incapacità della rotta. La notte mi smentisce quando, da solo con le stelle, sono preso dall'angoscia dell'oggi, dall'inquietudine che il nulla porta con sé.
La notte mi smentisce e mi accusa di questa accidia, della stanchezza, della fuga, dell'inedia, dell'orrore, dell'errore... Arriva improvvisa, dopo un tramonto che promette gioie inattese, riposo ai desideri. La notte getta la maschera, l'iceberg è davanti e non c'è nascondiglio. Enorme biancheggia la luna o il suo riflesso, ma intorno è buio, e sei solo coi tuoi pensieri e il tuo iceberg nel cuore. E aspetto, aspetto sempre l'alba, tremando, pregando che arrivi presto a dissolvere le paure dell'essere perso in un universo sconosciuto, tra volti anonimi, nel vuoto.
Poi arriva l'alba.
Ma forse confondo, forse nel naufragio siamo tutti, persi, dispersi dietro un sogno, una speranza, un'illusione, ognuno con le sue certezze ("credo, anzi ne sono certo, è così...") e al porto sono io, il porto della disillusione. Ma davvero credo che nel naufragio ci sia il mondo intero che corre veloce tra guerre, distruzioni, incomunicabilità, consumismo, orrori vari del nostro tempo, mentre prosegue, come sempre, "la festa in prima classe".
Se c'è il racconto di un naufragio che ben indica il nostro oggi quotidiano è quello del Titanic (narrato poeticamente da H. M. Enzensberger: mentre la nave affonda l'orchestra continua a suonare e sui battelli si salva la prima classe o i furbi o gli armatori corrotti). Che altro naufragio narrare dopo questo? Non li rappresenta tutti i nostri piccoli naufragi quotidiani? Il naufragio di un amore, di un sogno, di un lavoro, di una fede, di un ideale, di noi stessi. Non rappresenta il naufragio di un'epoca che oggi vive il suo trionfo? Non siamo già naufragati tutti ed il resto è solo sogno, il sogno che non sia già troppo tardi? Vorrei credere che non sia questa la fine che ci sia spazio al NOI e che sia infine spento questo egoismo che pure mi appartiene.
Banalità, dirai. Io davvero non so. Ma cosa sono, allora, tutti questi relitti che danzano nell'acqua?
Foto ingiallite, pezzi di legno, ritagli di giornale, valigie vuoto, un maglione inzuppato, biglietti di auguri, fiori secchi, lettere d'amore... Oggetti di una vita dispersi tra altri mille e niente conta più davvero, nemmeno quel sogno a cui ostinatamente ci lega lo sguardo puro di un io ragazzo.
Ma io ti dovevo parlare di un naufragio e non so, invece, di cosa ho vaneggiato, qui, da questa mia solitudine.
Dalla mia zattera, a voi, felice viaggio, in attesa di una terra».

Conclusione provvisoria
E allora. Non so bene cosa dirti, oggi. E' che mi sento strano, senza riferimenti, una sorta di naufrago che ha intorno solo mare. Dovrei navigare a vista, smetterla di sognare le isole tropicali piene di palme e bambù, luoghi a misura d'uomo in cui gli incontri sono veri, ma non riesco.

Lontani i porti, io rimango nella bonaccia di settembre a guardare le nuvole che annunciano pioggia.

(1999)