Sei morta di dicembre. Come al
solito non hai voluto disturbare, con quella tua aria seria
increspata appena dal sorriso che ti illuminava l’angolo degli
occhi.
C’è stato vento stanotte.
L’antenna che implacabile pende sulle nostre teste ha sbattuto di
continuo. Sembrava una voce che chiamasse, nel buio, che chiedesse
ragioni ad un cielo muto.
Sei morta di dicembre. Tutta la
città è illuminata per la festa imminente. Per la strada le luci
formano un tappeto volante, sui palazzi brillano le finestre
incorniciate. Tu non hai voluto disturbare il natale, sei morta
prima, di sera.
C’è stato gran vento. Dalla
finestra osservavo le cime squassate. Ululavano. Tutta la città
gridava. Gridava una rabbia impotente. Pioggia dal cielo. Pioggia,
pioggia, pioggia. E non c’è pace.
Sei morta sul far della notte. I
bambini a letto, che è tardi. I ragazzi a casa a studiare o davanti
alla tele. Qualcuno nei pub tra chiacchiere amiche. Pochi per strada.
Troppo freddo anche per una risata.
Siamo pochi qui fuori che
esorcizziamo la morte dicendo cazzate. Si cerca di ridere per buttare
giù le lacrime, ma la voce ci svela. Rivela quel pianto nascosto
che esplode. No, ragazzi, no, non c’è vergogna in queste lacrime,
non andate da soli nell’angolo. Stanotte facciamoci gruppo,
stringiamo le mani, gridiamo, piangiamo insieme. Che il calore dei
corpi vinca il gelo dei cuori.
Strappata, strappata via. Pezzo a
pezzo. Cosa rimane di te. Ti hanno portato via tutto. Metastasi
diffuse nel corpo. Il corpo, ah, il corpo. Derubato di sangue,
derubato di vita. Cacciata, cacciata via a morsi e schiaffi dalla
vita.
Michele ha tossito tutta la notte.
Mi alzo, lo prendo in braccio, lo cullo. Gli dico che tutto va bene.
Mi dice di restare con lui stanotte. Tutto va bene, Michele, tutto è
tranquillo. Anche se il rumore del vento penetra fin dentro le mura,
anche se la pioggia cade battente sui vetri, anche se quel rombo
sordo di antenna non smette, no, non smette mai, pur se cala il
vento…
Sei morta il 5 dicembre, di sera,
in ospedale. Da quanto rinchiusa? Da più di un mese e non ne sei più
uscita. L’altalena di notizie ti ha fatta vivere, poi morire, poi
vivere di nuovo. Ora non più. Aspetto, nella classe vuota, di
venirti a vedere per un ultimo saluto. Ti voglio bene. Può bastare?
Perché scrivere? Perché non so
fare altro, non so darvi conforto, anch’io piango come un
fanciullo, l’ho sempre fatto, perché non so dare ragione alla
morte. Elaboro il lutto così e vi sono vicino.
Di’, la ricordi attenta e
composta lì davanti e quando un sorriso ingenuo le apriva le labbra
ad un sì? E le parole sprecate in progetti, il futuro dietro
l’angolo di un solo anno, di’, le ricordi?
E la gente corre per negozi, a
teatro, a casa, dimentica di noi qui a San Francesco, su questo
marmo, a piangere, a dire parole, a far passare la notte.
Quante giovani vite ancora
sprecate sull’altare della vita? Che senso queste morti? Che
spreco, Dio mio, che spreco. Non so pensare ad altro.
Fa freddo. Sul diario scolastico
dell’anno prossimo ancora una pagina per ricordo? Fa freddo. Che
faremo domani? I bambini, gli amici, le verifiche a scuola… Fa
freddo, Filomena, e non vuole passare.
No, non passa, non passa mai se
ogni morte riporta con sé, in eterno, tutte le altre vissute, ed i
conti non tornano. La veglia al Gemelli, i fiori al Fatebenefratelli,
la fuga dall’albergo per Volla. È questo che resta? Il tuo
sorriso.
Stanotte ti ho sognata. Giocavi a
basket con le amiche. Tre contro tre. Poi non c’eri più. Solo un
groppo in gola mentre si continuava a giocare…
Dormi. Il viso ricomposto. Dolce
come sei, da sempre.
Dormi. Ti fanno corona le lacrime,
parole sussurrate nell’ombra, per non svegliarti.
Dormi. E mi avvicino in punta di
piedi per guardarti ancora una volta.
Tua madre. I tuoi amici. I tuoi
parenti. È un dedalo questo luogo, questa morgue. Per arrivare a te
si attraversano stanze di pena. Si seguono i lamenti, i singhiozzi.
Ma come si fa a sorridere qui? Anche il Cristo, crocifisso, ha il
volto del dolore. Per arrivare a te si attraversano volti ed è così
che giungo al tuo.
Ma no, non sei tu lì distesa. No.
È un corpo ma non sei tu.
Ognuno porta di te qualcosa. Io ho
rubato un sorriso, ho strappato, dalla bocca del leone, questo misero
resto e mi basta, mi deve bastare. È un brandello che ti rende viva
in me quel sorriso discreto, quella luce negli occhi.
C’è un intero paese che ti
piange in questo cielo terso, in questo freddo pungente.
Sei morta in dicembre, il mese
della speranza: dies natalis, feste, tredicesima… Volevi studiare.
Ti piaceva la tua vita. Ma ora, Filomena, la tua vita non potrà più
essere contabilizzata, in industrie, sei fuori mercato, libera.
Ed io vorrei tu fossi qui.
(2005)