sabato 4 ottobre 2014

In memoria



Sei morta di dicembre. Come al solito non hai voluto disturbare, con quella tua aria seria increspata appena dal sorriso che ti illuminava l’angolo degli occhi.

C’è stato vento stanotte. L’antenna che implacabile pende sulle nostre teste ha sbattuto di continuo. Sembrava una voce che chiamasse, nel buio, che chiedesse ragioni ad un cielo muto.

Sei morta di dicembre. Tutta la città è illuminata per la festa imminente. Per la strada le luci formano un tappeto volante, sui palazzi brillano le finestre incorniciate. Tu non hai voluto disturbare il natale, sei morta prima, di sera.

C’è stato gran vento. Dalla finestra osservavo le cime squassate. Ululavano. Tutta la città gridava. Gridava una rabbia impotente. Pioggia dal cielo. Pioggia, pioggia, pioggia. E non c’è pace.

Sei morta sul far della notte. I bambini a letto, che è tardi. I ragazzi a casa a studiare o davanti alla tele. Qualcuno nei pub tra chiacchiere amiche. Pochi per strada. Troppo freddo anche per una risata.

Siamo pochi qui fuori che esorcizziamo la morte dicendo cazzate. Si cerca di ridere per buttare giù le lacrime, ma la voce ci svela. Rivela quel pianto nascosto che esplode. No, ragazzi, no, non c’è vergogna in queste lacrime, non andate da soli nell’angolo. Stanotte facciamoci gruppo, stringiamo le mani, gridiamo, piangiamo insieme. Che il calore dei corpi vinca il gelo dei cuori.

Strappata, strappata via. Pezzo a pezzo. Cosa rimane di te. Ti hanno portato via tutto. Metastasi diffuse nel corpo. Il corpo, ah, il corpo. Derubato di sangue, derubato di vita. Cacciata, cacciata via a morsi e schiaffi dalla vita.

Michele ha tossito tutta la notte. Mi alzo, lo prendo in braccio, lo cullo. Gli dico che tutto va bene. Mi dice di restare con lui stanotte. Tutto va bene, Michele, tutto è tranquillo. Anche se il rumore del vento penetra fin dentro le mura, anche se la pioggia cade battente sui vetri, anche se quel rombo sordo di antenna non smette, no, non smette mai, pur se cala il vento…

Sei morta il 5 dicembre, di sera, in ospedale. Da quanto rinchiusa? Da più di un mese e non ne sei più uscita. L’altalena di notizie ti ha fatta vivere, poi morire, poi vivere di nuovo. Ora non più. Aspetto, nella classe vuota, di venirti a vedere per un ultimo saluto. Ti voglio bene. Può bastare?

Perché scrivere? Perché non so fare altro, non so darvi conforto, anch’io piango come un fanciullo, l’ho sempre fatto, perché non so dare ragione alla morte. Elaboro il lutto così e vi sono vicino.

Di’, la ricordi attenta e composta lì davanti e quando un sorriso ingenuo le apriva le labbra ad un sì? E le parole sprecate in progetti, il futuro dietro l’angolo di un solo anno, di’, le ricordi?

E la gente corre per negozi, a teatro, a casa, dimentica di noi qui a San Francesco, su questo marmo, a piangere, a dire parole, a far passare la notte.

Quante giovani vite ancora sprecate sull’altare della vita? Che senso queste morti? Che spreco, Dio mio, che spreco. Non so pensare ad altro.

Fa freddo. Sul diario scolastico dell’anno prossimo ancora una pagina per ricordo? Fa freddo. Che faremo domani? I bambini, gli amici, le verifiche a scuola… Fa freddo, Filomena, e non vuole passare.

No, non passa, non passa mai se ogni morte riporta con sé, in eterno, tutte le altre vissute, ed i conti non tornano. La veglia al Gemelli, i fiori al Fatebenefratelli, la fuga dall’albergo per Volla. È questo che resta? Il tuo sorriso.

Stanotte ti ho sognata. Giocavi a basket con le amiche. Tre contro tre. Poi non c’eri più. Solo un groppo in gola mentre si continuava a giocare…

Dormi. Il viso ricomposto. Dolce come sei, da sempre.
Dormi. Ti fanno corona le lacrime, parole sussurrate nell’ombra, per non svegliarti.
Dormi. E mi avvicino in punta di piedi per guardarti ancora una volta.

Tua madre. I tuoi amici. I tuoi parenti. È un dedalo questo luogo, questa morgue. Per arrivare a te si attraversano stanze di pena. Si seguono i lamenti, i singhiozzi. Ma come si fa a sorridere qui? Anche il Cristo, crocifisso, ha il volto del dolore. Per arrivare a te si attraversano volti ed è così che giungo al tuo.

Ma no, non sei tu lì distesa. No. È un corpo ma non sei tu.

Ognuno porta di te qualcosa. Io ho rubato un sorriso, ho strappato, dalla bocca del leone, questo misero resto e mi basta, mi deve bastare. È un brandello che ti rende viva in me quel sorriso discreto, quella luce negli occhi.

C’è un intero paese che ti piange in questo cielo terso, in questo freddo pungente.

Sei morta in dicembre, il mese della speranza: dies natalis, feste, tredicesima… Volevi studiare. Ti piaceva la tua vita. Ma ora, Filomena, la tua vita non potrà più essere contabilizzata, in industrie, sei fuori mercato, libera.


Ed io vorrei tu fossi qui.  

(2005)

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