lunedì 10 ottobre 2022

Il regno profondo. Perché sei qui?

 


Ci sono spettacoli che non bucano il guscio dello spettatore, lo lasciano freddo, insensibile negli occhi e nel cuore. Sarà la scenografia minimale, il tema trattato, il modo in cui gli attori si relazionano, il fatto è che tutto resta insensato, anche fastidioso.

Non è che non siano bravi, anzi. La capacità di usare la voce, di modularla, di essere all'unisono nel dire, nell'agire è un'arte difficile e rara, ma... Ma quella voce resta lontana, la grata di parole non illumina, la proiezione di luce lascia buia la mente, freddi.

Sarà che i temi affrontati non aprono brecce e anche se ti riguardano, anche se io e Dio, identità e religione, senso dell'essere e apparire sono cose con cui ti confronti quasi quotidianamente, qui restano vuote. Vuoto di parole che nel vuoto costruiscono monumenti al vuoto.

Forse è proprio questo il senso? Forse (forse) è proprio nell'insignificanza del nostro chiacchiericcio il senso dello spettacolo; forse (forse) è proprio nelle migliaia di parole che ogni giorno ci attraversano la strada, quelle che diciamo e quelle che ascoltiamo, quelle lette e quelle pensate, il significato nascosto e non colto. Forse (forse) quell'elenco di luoghi e negozi, quelle parole luminose ormai spente, quel dire e quel girare a vuoto da teatro dell'assurdo sono l'essenza di ciò a cui assistiamo. Il nostro nulla.

Ma il cuore resta freddo, distante. Sarà dunque questa insignificanza che provo, la cappa inquietante che sento, questo non senso che vedo davanti agli occhi il senso logico dello spettacolo? Buio.

Divagazioni

Ho un vago ricordo di uno spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio visto al Teatro Nuovo di Napoli sul finire degli anni Ottanta. Mi colpì il rigore di Romeo Castellucci, un rigore freddo, distante. Ho rivisto in seguito due loro spettacoli (sempre nell'ambito del Città 100 scale): a Matera nel 2017, Giulio Cesare. Pezzi staccati e allo Stabile nel 2018 Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, spettacoli che invece mi colpirono per la forza visionaria e l'interrogazione al nucleo dell'uomo, politico e religioso, la voce e l'immagine.

Uscito fuori dal teatro penso a tutto questo. Guardo le insegne della latteria, del bar, del supermercato, ascolto pezzi di parole da una conversazione di fianco, mentre passo veloce, vedo uno squarcio di cielo tra i palazzi e mi dico che questa è l'insignificanza, questo non commuoversi più, non riuscire più a vedere la meraviglia delle cose, con il passare dell'età. Tutto uguale, tutto cenere. Alle cose intorno e dentro me non c'è vibrazione nel cuore. Eppure c'è l'ansia del dire, L'ansia del parlare di uno spettacolo, di ogni spettacolo visto, di ogni libro letto, di ogni incontro fatto, anche quando non c'è più niente e tutto tace dentro. Anche allora, nel buio dentro e nel silenzio fuori, dire parole non prostituite.


lunedì 26 settembre 2022

Tutto brucia


 «Ecuba esce. Vuoto».

Con queste parole si conclude Tutto brucia dei Motus, con l'uscita di scena di Silvia Calderoni (Ecuba), il buio sempre più fitto che cala sul palco ricoperto di cenere e resti indistinti di cose e corpi, mentre un rumore sempre più forte ferisce le orecchie.

Non c'è luce nello spettacolo, non c'è speranza di un futuro diverso. Tutto brucia. Tutto è vuoto.
Una umanità distorta, disarticolata, metamorfica, animalizzata è quella che c'è stata sulla scena. Donne-animali, donne-burattini spezzate dalla violenza, stuprate, assassinate, bruciate, ridotte a schiave, prostitute, resti di una umanità sepolta e perduta.

Le parole de Le Troiane di Euripide, da cui la drammaturgia dei Motus prende vita, ci sono ancora, ma anch'esse sono brandelli, sommerse dai rumori, dal grido gutturale a cui sono ridotte le parole, latrato, verso stridulo di uccello.

Non c'è luce, se non quella delle torce, il fuoco che ha ridotto tutto in cenere e che continua ad ardere, finché della città non rimarrà più nulla. Resta il canto, qui rappresentato dalla sola R.Y.F. (Francesca Morello), che canta e suona sulla scena, e che, come nell'antico coro greco, rappresenta il punto di vista della collettività rimasta che commenta e che, forse, dovrebbe dare un ordine alle cose. Ma le cose non hanno più senso.

Balenano sciagure. Non solo quelle del presente, ma anche quelle di un livido futuro, come annunciato dalla invasata Cassandra (Stefania Tansini). Le Troiane non portano ordine, non mettono un freno all'orrore della guerra, annunciano invece altre tragedie. Così lo spettacolo. Annuncia mutazioni di queste donne in schiave derelitte (e le annuncia un'Ecuba già non più donna, trasformata in viso da una maschera e nella voce). E le mutazioni non annunciano speranza, visto che saranno animali (Ecuba in cagna), cose (Niobe in roccia).

Tutto brucia. Lo spettacolo, nato durante il momento più feroce della pandemia, rende ragione, attraverso questo rimando, della sua oscurità, se pensiamo all'orrore di quei giorni, i morti, la solitudine, il silenzio. È uno sguardo desolato sull'oggi, sulle cupe vampe della nostra crisi, sulla guerra senza vincitori, solo con vinti.

Il canto limpido di R.Y.F. smette lasciando campo al rumore degli ultimi crolli e al silenzio; i movimenti armoniosi di Stefania Tansini si spezzano nella disarticolazione delle giunture, nei movimenti sincopati, infine nella rigidità della morte; la voce appassionata di Silvia Calderoni diventa grido, metallo lacerante, silenzio.

Fuoco, fumo, rumori. La condanna di una storia fatta di violenza, guerra, orrore. Condanna senza più voce di un presente oscuro. 

Tutto brucia. Il futuro? Forse dalla cenere potrà nascere qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo e luminoso. Forse.


Visto il 23 settembre 2022 al teatro Stabile di Potenza nell'ambito del Festival Città 100 scale.

Manifesto transpofágico


 Il tema è importante, attuale, quasi vitale oggi, ma il modo in cui lo spettacolo si sviluppa, confesso che mi ha infastidito.

L'attrice Renata Carvalho nuda sul palco ha un senso, come la sua storia di travesti, storia di affermazione di identità, di dolore, lotta, vita. E non nego che anche il dibattito in sala col pubblico, quando le luci si accendono, possa diventare atto politico. Ma quel girare nuda per la sala? Chiedere agli spettatori se vogliono toccare i glutei o il seno? Che senso ha? Non è un modo ulteriore, ancora, di mercificare il corpo? Non è ancora mettere al centro del discorso l'oggetto e non il soggetto e la sua identità? L'affermazione dei valori, la presa di coscienza, le riflessioni devono necessariamente passare attraverso quello che quotidianamente fa la nostra società dei consumi? Il corpo delle donne e delle travesti sbattuto in primo piano?  

Io non credo.


Visto il 20 settembre 2022 al Teatro Stabile di potenza nell'ambito del Festival Città 100 Scale.

lunedì 12 settembre 2022

The mountain

 



C’è una poetica chiara dietro il lavoro di Agrupación Señor Serrano, una poetica che si lega alla loro estetica, alla ricerca di unire parole, immagini, oggetti, video, recitazione, gesti; c’è una chiara volontà non di stupire a tutti i costi lo spettatore, ma di inseguire la propria idea di teatro, con l’idea di raccontare il presente con gli strumenti del presente.

Avevo avuto già modo di vedere il gruppo nel 2017 con lo spettacolo Birdie, e di ascoltare Pau Palacios che aveva raccontato, ai miei alunni della II F del Flacco, il lungo processo creativo del gruppo a partire dalle risorse dei media, e che poi, attraverso una serie di residenze di creazione, attraverso il dialogo con gli spettatori presenti per capire cosa funziona e cosa no, arriva allo spettacolo finale. Anche The mountain segue lo stesso processo, e si vede chiaramente nella costruzione che è stata portata in scena, ma ha un impatto fortissimo per il tema affrontato che è quello del concetto di verità. Schiacciati dalla marea di notizie, fake news, proclami, affermazioni che si contraddicono a distanza di poche ore e spesso dette dalle stesse persone, ci muoviamo a stento, incapaci di discernere una notizia vera da una falsa, spesso trascinati più dall’emozione improvvisa suscitata dalla notizia che dal ragionamento.

Di questo e di altro parla lo spettacolo di Senor Serrano, che unisce la prima scalata dell’Everest e la trasmissione radiofonica di Orson Welles con La guerra dei mondi, Putin e le sue storielle e il badminton. Lo spettacolo si sviluppa con una serie di tasselli che si intersecano perfettamente: la storia della scalata del 1924 ad opera George Mallory e Andrew Irvine, scomparsi nel corso del loro ultimo tentativo di attacco alla cima, che lascia aperte le ipotesi che possano aver o meno raggiunta la vetta, raccontata tramite le lettere della moglie di Mallory, Ruth; la trasmissione radiofonica di Orson Welles e la parole del regista subito dopo il panico suscitato dalla sua radiotrasmissione unite a quelle pronunciate 17 anni dopo, che ripropongono il dubbio sulla volontà o meno di suscitare quel terrore così da interrogarsi sul ruolo dei media; il volto di Putin proiettato sullo schermo, ma che ha il corpo della giovane Anna Pérez Moya, che dà lezioni di fiducia e verità. E poi il badminton, che nell’ora di spettacolo diventa baseball, e che mi ha ricordato il mondo del tennis dei romanzi e saggi di Foster Wallace, una sorta di codice di lettura dei comportamenti e dei meccanismi della società.

The mountain ci dice di spostare lo sguardo, di guardare dall’alto ma anche di lato, di guardare noi stessi (un drone ad un tratto riprende e rimanda sugli schermi sul palcoscenico l’immagine degli spettatori: chi guarda chi?), di non fidarci delle apparenze, di esercitare il dubbio. E lo fanno in modo giocoso ma estremamente rigoroso ricordandoci perché il teatro sia ancora così importante e necessario.

La forza di questo spettacolo (ma del teatro in genere, del vero teatro) è quello di parlare della contemporaneità, di far riflettere sulla contemporaneità. E anche se oggi la forza dei media è globale e portare ancora la gente a teatro è difficile, rimane fondamentale l’incontro, l’incontro con le altre persone presenti, con i performer, ascoltare ciò che dicono gli altri. E questa ricchezza, questo momento, non si può riprodurre tramite una chat o un video.

La domanda iniziale, “What’s true?, “Cos’è vero?”, rimane senza risposta, ma resta in noi spettatori l’idea della ricerca, del non arrendersi ad un unico punto di vista, perché la realtà è varia, ha mille sfaccettature, mille tasselli che forse possono essere ricomposti solo nel dialogo. Grazie a Agrupaciòn Senor Serrano e grazie al Città delle 100 Scale Festival per la possibilità che offre con la loro programmazione.

(Visto il 10 settembre 2022 nell’ambito della XIV edizione dire/tacere del Città delle 100 Scale Festival)

* * *

«Noi usiamo questi strumenti sul palco e questo modo di collegare le idee, le immagini, i concetti semplicemente perché secondo noi è come noi oggi accediamo alla realtà. Cioè io se mi interessa un argomento e voglio sapere qualcosa su questo argomento subito vado su internet e faccio una ricerca e in questa ricerca mi trovo tanti testi scritti, video, immagini ed è la mia testa che va a mettere insieme tutti i pezzi che sto trovando. Poi posso parlarne con un amico, insieme possiamo produrre un video che poi condividiamo con un altro amico, e alla fine penso che è così che funziona il nostro cervello, e come noi stiamo raccontando le storie oggi giorno, non in un modo lineare ma in un modo fatto di piccoli tasselli. Poi noi condividiamo tutti un sacco di informazioni già comuni, quindi contiamo che il pubblico ha già queste informazioni. Noi soltanto suggeriamo un modo di collegare queste informazioni, in un modo diverso, ed è quello che ci contraddistingue, quello di dare un punto di vista proprio sull’argomento, perché i fatti in sé li conosciamo praticamente tutti e abbiamo più o meno le stesse informazioni. Poi ci diamo un sacco di libertà nel decidere se una cosa combacerà con l’altra o meno, Questo lo metti insieme con la frattura estetica dello spettacolo, con l’approccio, con lo sguardo, con i filtri che tu metti e si collega da solo» (dall’intervista degli studenti del Flacco di Potenza a Pau Palacios, 2 novembre 2017, nell’ambito del progetto Elementi di struttura del sentimento).

 




domenica 24 luglio 2022

Promemoria

 



Allargare lo sguardo
allarga anche il cuore?

Avvizzisce il cuore con l'età,
si restringe a scadenze, impegni, attività.
Non vedi oltre il luccichio
delle strade, dei negozi
tutti uguali ad ogni latitudine del mondo
(le scarpe, i cibi, i vestiti - tutto lo stesso).

Non senti più l'odore che porta il vento
dai campi, il calore del sole
al mattino sulla pelle, il fresco
dell'acqua salmastra negli occhi
(ma il vento scompiglia i capelli,
il sole non porta che caldo,
il sale non è che fastidio).

Non vedi più agli angoli lungo la strada 
i vinti, chi non ce l'ha fatta nella corsa
al progresso (avanti, sempre avanti,
fino al sol dell'avvenire...), le loro
buste sporche, i giacigli
rimediati col cartone (assale
un senso di nausea, di schifo).

Ascolta ancora:
il suono del filo d'erba.
Il silenzio di tuo figlio.
Il pianto di tua moglie.
Ascolta, ancora,
non chiudere gli occhi al sole,
non schermarli dietro occhiali
scuri (è nero intorno, come il cuore).

Ripeti ossessivo le parole, i nomi,
i volti, gli oggetti, quei residui
cari che ti fondano. Lo sai,
non scrivere più restringe la voce,
chiudere gli occhi è chiudere
il cuore. Guarda, ascolta, scrivi.

lunedì 11 luglio 2022

Io ricordo - fondamenta

 


Immagini, sensazioni, odori. Il vento che arriva dal mare tra i riccioli chiari. L'odore della salsedine, la luce bianca del sole. Possibile che anche questo ricordo sia fasullo? Il lungomare di Bari, i lampioni, il movimento lento del mare. Troppo piccolo per quel ricordo, è posticcio, creato dalle foto, quelle in bianco e nero in cui però puoi immaginare, in cui il sorriso che si intravede nel viso girato verso l'acqua  dà il senso del luogo, dell'emozione. Nient'altro.

Allora qual è il primo ricordo che ti fonda? Qual è quello che puoi dire con certezza che è tuo, senza foto, senza creazioni a posteriori dell'evento, in cui davvero ti riconosci? Ce n'è uno che mi accompagna da sempre e che è fissato così in profondità nella mia mente, che mi appartiene talmente da offuscare anche ricordi successivi. anch'essi forse importanti ma non tali da avere la forza dell'inizio, della pietra su cui si è edificata questa mia vita storta.

1970 o forse, più probabilmente, 1971. Sono seduto sul balcone, è un balcone stretto che dà su una strada non trafficata, a casa. Avrò tre, quattro anni? E' una giornata di sole, lo sento sulla pelle. Sto giocando con una pistola ad acqua, di quelle antiche, che facevano un spruzzo corto e che, per evitare che gocciolassero, avevano un piccolo tappo. La pistola è rossa. il tappo è grigio. Io sto giocando, seduto sul balcone. Ho tappato la pistola, ma voglio vedere cosa succede se tiro il grilletto. Sporgo il braccio fuori dalle sbarre. Premo il grilletto... Vedo lentamente il tappo saltare e cadere giù, perduto. Ecco. Questo è il ricordo. Il senso di perdita. L'impossibilità che l'oggetto, il gioco, potesse di nuovo tornare integro. Il vuoto, senza lacrime. La mancanza che mi accompagna ancora quando smarrisco qualcosa, quando qualcosa si rompe, qualunque cosa. Tutto nasce da lì, da quella perdita, da quel gioco da quel giorno abbandonato (ma sarà poi vero?) perché incompleto, inutile (non potevo più usarlo con l'acqua per via del gocciolamento prodotto). La pietra fondante di un carattere, la percezione di una perdita irrimediabile. Esagero, lo so.



Un altro ricordo è legato al primo arrivo a Benevento, 1970. In macchina, di notte. Via Giovanni de Nicastro. Come quando durante il viaggio ti svegli proprio al momento dell'arrivo, quando la strada non è più dritta ma è fatta di curve, rallentamenti, frenate. La caserma che si stagliava davanti ai miei occhi enorme, buia  Il senso di nuovo, di mistero che si apriva nella mente. Lo stupore degli alberi che si muovevano nel giardino a lato della caserma. Un nuovo inizio. Benevento per me è stato l'inizio di tutto, di tutti i miei ricordi, le amicizie, le scuole. Prima un vuoto, pochi ricordi ricreati dalle foto, da lì ha inizio un'altra vita.




Il tuo viso assente

 




Quel che ho visto scomparirà con me,

quel che resta è immagine fugace:

il dono del silenzio al mattino,

ciò che c'era e non è più,

ciò che brucia, ora, tutto.

Nemmeno il tuo ricordo resterà.

Svanire. Nell'essenza.

Svenire. Nell'assenza.


sabato 18 giugno 2022

Bononia

 



1.

Come quella volta in cui insieme
- dopo l'ultimo strappo, l'ultima salita -
si è aperta la strada alla vista,
il mare illuminato dal sole.

Sale la materia del ricordo,
non dà pace, anche questo è una ferita,
rimpianto di un tempo passato
dove tutto era chiaro, ben tornito.

È sale sul presente quel tempo
come le lacrime che trattieni a stento
e mi racconti di te, del tuo agire,

questo tuo chiedere infinito, il motivare,
la ragione che squadra, il tuo parlare.
Non ho risposte, cara, non ho voce.
 




2.

Non è l'arrivo ma la fatica della strada che tu cerchi, sono le gambe che dicono basta e la volontà di andare che le regge. Sono le soste che cerchi, quelle che si aprono improvvise tra le colonne, gli alberi e i palazzi, e danno fiato agli occhi, allargano il riso, il cuore.

3.

Le 15 stazioni della vita e della morte, del dolore e della gloria offrono pause al fiato. Nel mistero in cui non credo posso comunque curare il respiro, chiudere gli occhi in attesa di riprendere il cammino.

4.

Questo cielo d'azzurro e d'acciaio non dona conforto. Troppi pensieri affollano la mente e non c'è gioia nei colori, nei sogni neri. Resto in attesa, col fiato sospeso. Aspetto da te una parola, un gesto, anche un rimprovero. Non arriva, non arriva mai.
Io sono qui, tu dove sei?




lunedì 30 maggio 2022

Io ricordo - premessa

 




Ci sono ricordi fissati a fuoco nella mia mente e altri che sfuggono malgrado cerchi di afferrarli. E poi ci sono quelli che si modificano nel tempo, per non soffrire, per accusare qualcun altro (un padre, un amico...) dei propri fallimenti. Sono materia complicata i ricordi, labile e dura nello stesso tempo: sfuggono d'improvviso quando sono lì ad un passo e li stai per afferrare, evanescenti scompaiono con una risata, una parola che cerchi di fissare per ritrovare l'attimo e già non è più lei, e già non sei più tu. Oppure si accampano, sordi al tuo bisogno di dimenticare, ti afferrano con forza, ti scuotono, pretendono un ascolto che tu non vuoi più dare, e rimangono lì, per giorni e giorni, finché non li guardi per capire, e già sono mutati in altro. Allora ci vai dentro, nel turbine di ciò che era e già diverso appare, mostrando il caleidoscopio delle possibilità, ciò che poteva e non sarà, ciò che è stato e non tornerà.

E dunque? Cosa voglio fare con queste mie parole? Cosa voglio ancora dimostrare e dire? Questo vuole essere solo un tentativo di recupero e di analisi, nel cercare di capire quante, delle cose che io ricordo, siano vere e quante siano invece il frutto di una mia ricostruzione a posteriori. Quante abbiano il senso di una fondazione e quante, importanti, ho lasciato andare, quali hanno assunto un significato per me e non per altri, perché quel viso, quel gesto, quel nome e non un altro, perduto per sempre. 

Ma c'è dell'altro. C'è l'io che appare nelle parole di chi mi ha conosciuto. Chi sono nei ricordi degli altri? Chi è che cammina, parla, ride, e che a volte appare in racconti in cui non mi riconosco, che descrivono un altro me che guardo con simpatia o con orrore, con un sorriso o con un moto di ripulsa? Chi è quel Luca che non riconosco? E quando i ricordi collidono, il mio e il tuo, quando manca la certezza di ciò che è stato, cosa rimane?

Cerco di afferrare quel primo ricordo, quello che mi fonda, da cui tutto scaturisce. La nascita, l'essenza di me. Ma so che quella prima memoria, quel lampadario con gocce di cristallo che trovo nella mia memoria, quella luce che si riflette sulle pareti bianche e confonde visi e parole, è un inganno, una costruzione venuta dopo, già adulto. Dovrò ricominciare. 

venerdì 28 gennaio 2022

Cuori dentro


 Caro Pino,

ho comprato il libro quasi come il catalogo di una mostra, quando, dopo aver attraversato le sale ed esserti soffermato sui dipinti, decidi di portarti a casa un ricordo, la memoria di quel giorno, per rivedere poi, e magari rivivere con calma, i sentimenti attraversati, i pensieri avuti.  C'era l'idea, anche, di un momento ormai passato, a cui guardare forse con timore, con le paure di quei giorni, ma anche con quella speranza che ci teneva uniti, il pensiero che sarebbe passato.

Ti confesso invece l'angoscia nel rileggere quelle parole, come se fossero ancora presenti e con, in più, il sentimento di un tempo passato invano. Come se insomma, per riprendere l'immagine dell'inizio, fossi ancora dentro al museo, girando per le sale senza trovare l'uscita, nemmeno quella di sicurezza.

L'ho riposto così nella libreria, in attesa di tempi migliori, in cui poterlo prendere e rileggere con più distacco, quando davvero tutto questo sarà un tempo lontano e non mi interrogasse più sul mio essere oggi, sulle nostre famiglie, i nostri figli, i nostri amici, su quello che sono, siamo diventati, su quello che abbiamo perduto, per sempre, e su quello che ci è restato.

Quando tutto questo sarà stato rielaborato, quando sarò riuscito ad attraversare questo tempo senza tornare con la mente al dolore, quando questo dolore non farà più così male, allora potrò riprenderlo in mano con fiducia e con un sorriso. 

giovedì 27 gennaio 2022

Quattro pensieri sull'oggi

 


Primo

La morte da bambino era una preghiera, quella di morire prima dei miei cari, di non vedere il loro funerale. Il pensiero nato alla morte di mio nonno materno, con la notizia arrivata in casa la mattina presto, prima di andare a scuola, e comunicata da mio padre tenendomi sulle ginocchia. La morte prima era distante, era quella degli altri, di chi non conoscevo. Quello fu il primo momento in cui la sentii vicina.

Da ragazzo la morte era il vizio assurdo di Pavese, il dolore della solitudine nei pomeriggi in casa, il sentirsi estranei alla vita e trovarsi in quelle pagine scritte da un fratello più grande. Era il dolore dell'amore impossibile, tenuto nascosto eppure mostrato dagli occhi, erano le lacrime sulle spalle di un amico, era la notte passata a bruciare un giornale per riscaldarsi fuori da un ospedale, ed era un funerale a mia insaputa, con quei fiori portati indietro per l'incontro mancato e lo scavalcare il cancello del cimitero girando impazzito tra tombe sconosciute nella notte, quando solo i lumini erano compagni a parole sconnesse.

La morte da adulto è stata quella nera di chi non ti aspetti, quella di alunni strappati d'improvviso alla vita, quella di cui non sai dare ragione, quando le parole non bastano e mi resta il silenzio, Ed è, ora, di nuovo, quel vizio assurdo che torna, quando i dolori sembrano insopportabili, insormontabili, e il nero ragno dell'angoscia fa la sua casa nella mia testa.


 Secondo

Come cambia la prospettiva, il tempo. Quelle lunghe nottate a cullare i miei figli, il sonno perso, la paura di una loro caduta... Come vorrei che tornassero quelle piccole preoccupazioni, quel tempo ignaro di futuro, quel lieve tormento sul loro sonno, su un loro colpo di tosse, sul cibo rifiutato. E oggi? Oggi ho paura a dire una parola, ho vergogna del loro sguardo che non mi vede, del silenzio che ci attraversa e diventa baratro. Ho paura dei miei sentimenti che diventano rabbia impotente, della loro vita senza direzione né senso, del vuoto in cui sono immersi nei loro schermi, vuoto di giochi, vuoto di serie tv, vuoto di social, vuoto.

E così attraverso questo tempo, guardando indietro perché davanti ho solo nebbia, pensando a ciò che eravamo insieme, alle parole, l'amore, i sorrisi, e a ciò che siamo diventati. Persone che vivono sotto lo stesso tetto ma sono estranei, ognuno chiuso nel suo giorno di dolore, nel rimbombo della propria mente in cui ripeto le cose che vorrei dirgli, che vorrei dargli, in cui ripeto le parole che potrebbero svelarli a me. Ma non avviene mai. 


Terzo

Se mi fermo sono perduto. I pensieri prendono piede, mi soffocano. C'è solo questo sentimento di fine, ultima fermata prima dell'arrivo. Ma dove poi? Non c'è arrivo, c'è solo il bisogno di occupare le giornate, di non smettere di correre, di fare cose, perché altrimenti non resta che l'amaro, il pianto. Allora corro: a scuola anche quando non dovrei andare, a fare la spesa, fuori. Perché qui c'è un velo, un nero che circonda ogni cosa; perché qui ci sono loro nel letto, nel loro far niente, nei loro schermi. E ci sono io, incapace, vuoto, morto.

Se mi fermo sono perduto. Corro, leggo, parlo. Ma la voce è sempre più debole, svela le mie bugie, il bluff che nascondo. Non potremo più essere felici. E questo dolore, se non corro via, se non occupo il giorno, mi soffoca, porta pensieri bui, quel ragno che fa la tela nella mia testa.


Quattro 

La notte mi sveglio sempre tra le 3 e le 4. Gli occhi sbarrati a sentire i rumori nella camera a fianco. Un figlio non dorme e guarda uno schermo. L'altro ancora non è rientrato o sta rientrando. Mi alzo, giro a piedi scalzi nel buio oppressivo della casa. Se parlo ricevo silenzio o offese, prese un giro o grida. Resto in silenzio. Mi siedo. Osservo gli oggetti così vivi di giorno. Ora sono altro, gusci vuoti, inutili orpelli di una vita non più mia. 

Torno a letto ma il sonno non arriva, e so che mia moglie vive la mia stessa angoscia, il mio stesso dolore, lo stesso tormento impotente. C'è solo questo che ci avvolge, e non basta più la tenerezza, non basta più tenerci la mano perché ci attraversa lo stesso sentimento che non trova conforto. Dormiamo un sonno disturbato e senza sogni. Di lei ammiro il risveglio che le ridona speranza (non sempre), che le riporta il sorriso, il senso del suo dovere. Io no. Vivo disperato e mi trascino dal giorno alla notte e non vedo segnali, solo quest'andare alla deriva, nel naufragio del mio essere genitore.