C’è una poetica chiara dietro il lavoro di Agrupación Señor Serrano, una poetica
che si lega alla loro estetica, alla ricerca di unire parole, immagini, oggetti,
video, recitazione, gesti; c’è una chiara volontà non di stupire a tutti i
costi lo spettatore, ma di inseguire la propria idea di teatro, con l’idea di
raccontare il presente con gli strumenti del presente.
Avevo avuto già modo di vedere il gruppo nel 2017 con
lo spettacolo Birdie, e di ascoltare
Pau Palacios che aveva raccontato, ai miei alunni della II F del Flacco, il lungo processo
creativo del gruppo a partire dalle risorse dei media, e che poi, attraverso una
serie di residenze di creazione, attraverso il dialogo con gli spettatori
presenti per capire cosa funziona e cosa no, arriva allo spettacolo finale.
Anche The mountain segue lo stesso processo, e si vede chiaramente nella
costruzione che è stata portata in scena, ma ha un impatto fortissimo per il
tema affrontato che è quello del concetto di verità. Schiacciati dalla marea di
notizie, fake news, proclami, affermazioni che si contraddicono a distanza di
poche ore e spesso dette dalle stesse persone, ci muoviamo a stento, incapaci
di discernere una notizia vera da una falsa, spesso trascinati più dall’emozione
improvvisa suscitata dalla notizia che dal ragionamento.
Di questo e di altro parla lo spettacolo di Senor Serrano, che unisce la prima
scalata dell’Everest e la trasmissione radiofonica di Orson Welles con La
guerra dei mondi, Putin e le sue storielle e il badminton. Lo spettacolo si
sviluppa con una serie di tasselli che si intersecano perfettamente: la storia
della scalata del 1924 ad opera George Mallory e Andrew Irvine, scomparsi nel
corso del loro ultimo tentativo di attacco alla cima, che lascia aperte le
ipotesi che possano aver o meno raggiunta la vetta, raccontata tramite le
lettere della moglie di Mallory, Ruth; la trasmissione radiofonica di Orson
Welles e la parole del regista subito dopo il panico suscitato dalla sua
radiotrasmissione unite a quelle pronunciate 17 anni dopo, che ripropongono il
dubbio sulla volontà o meno di suscitare quel terrore così da interrogarsi sul
ruolo dei media; il volto di Putin proiettato sullo schermo, ma che ha il corpo
della giovane Anna Pérez Moya, che dà lezioni di fiducia e verità. E poi
il badminton, che nell’ora di spettacolo diventa baseball, e che mi ha
ricordato il mondo del tennis dei romanzi e saggi di Foster Wallace, una sorta di codice di lettura dei
comportamenti e dei meccanismi della società.
The mountain ci dice di spostare lo sguardo, di
guardare dall’alto ma anche di lato, di guardare noi stessi (un drone ad un
tratto riprende e rimanda sugli schermi sul palcoscenico l’immagine degli
spettatori: chi guarda chi?), di non fidarci delle apparenze, di esercitare il
dubbio. E lo fanno in modo giocoso ma estremamente rigoroso ricordandoci perché
il teatro sia ancora così importante e necessario.
La forza di questo spettacolo (ma del teatro in
genere, del vero teatro) è quello di parlare della contemporaneità, di far
riflettere sulla contemporaneità. E anche se oggi la forza dei media è globale
e portare ancora la gente a teatro è difficile, rimane fondamentale l’incontro,
l’incontro con le altre persone presenti, con i performer, ascoltare ciò che dicono
gli altri. E questa ricchezza, questo momento, non si può riprodurre tramite
una chat o un video.
La domanda iniziale, “What’s true?, “Cos’è vero?”,
rimane senza risposta, ma resta in noi spettatori l’idea della ricerca, del non
arrendersi ad un unico punto di vista, perché la realtà è varia, ha mille
sfaccettature, mille tasselli che forse possono essere ricomposti solo nel
dialogo. Grazie a Agrupaciòn Senor
Serrano e grazie al Città delle 100 Scale Festival per la possibilità che
offre con la loro programmazione.
(Visto il 10 settembre 2022 nell’ambito della XIV edizione dire/tacere del Città delle 100 Scale Festival)
* * *
«Noi usiamo questi strumenti sul palco e questo modo di collegare le idee, le immagini, i concetti semplicemente perché secondo noi è come noi oggi accediamo alla realtà. Cioè io se mi interessa un argomento e voglio sapere qualcosa su questo argomento subito vado su internet e faccio una ricerca e in questa ricerca mi trovo tanti testi scritti, video, immagini ed è la mia testa che va a mettere insieme tutti i pezzi che sto trovando. Poi posso parlarne con un amico, insieme possiamo produrre un video che poi condividiamo con un altro amico, e alla fine penso che è così che funziona il nostro cervello, e come noi stiamo raccontando le storie oggi giorno, non in un modo lineare ma in un modo fatto di piccoli tasselli. Poi noi condividiamo tutti un sacco di informazioni già comuni, quindi contiamo che il pubblico ha già queste informazioni. Noi soltanto suggeriamo un modo di collegare queste informazioni, in un modo diverso, ed è quello che ci contraddistingue, quello di dare un punto di vista proprio sull’argomento, perché i fatti in sé li conosciamo praticamente tutti e abbiamo più o meno le stesse informazioni. Poi ci diamo un sacco di libertà nel decidere se una cosa combacerà con l’altra o meno, Questo lo metti insieme con la frattura estetica dello spettacolo, con l’approccio, con lo sguardo, con i filtri che tu metti e si collega da solo» (dall’intervista degli studenti del Flacco di Potenza a Pau Palacios, 2 novembre 2017, nell’ambito del progetto Elementi di struttura del sentimento).
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