sabato 19 dicembre 2015

Animal


1. Anima. Nella profondità degli occhi vedevo la sua anima che mi parlava di affetto, di dolore, di perdita. Il mugolio saliva dal profondo. Trattenuto fino a quel momento esplose come un grido. Era una richiesta a cui non potevo rispondere, non più.
Nei lunghi giorni estivi precedenti quel momento eravamo stati tanto insieme, troppo forse, C'è un'abitudine nel condividere giorno dopo giorno le ore, che fa credere che quei momenti non finiranno mai, che l'affetto, l'amore, le carezze dureranno per sempre. Non è così, non è mai così.
Un uomo, un ragazzo se ne fa una ragione, l'inverno riporta i ritmi della vita, la routine quotidiana spegne il ricordo del sole estivo, delle corse, dell'odore dell'erba, tanto più per me che vivevo in città, nel ventre accogliente della bestia, alle prese con i primi umori dell'adolescenza.
Ma lei... Lei non poteva rassegnarsi. Lei che sarebbe rimasta lì, per sempre. Questo diceva quel grido, tutto il rimpianto per ciò che era andato perduto, tutto l'amore che, nonostante tutto, continuava immutato, E niente sarebbe più stato come prima, anche se fossi tornato l'anno seguente e quello dopo ancora.
Piangeva? Non so dirlo, perché a quel punto Yuba venne chiusa da mio nonno nella stanza in basso, da dove proseguì il suo guaito, il suo pianto disperato. Nella notte in cui stavamo partendo, nel silenzio della villa, quel pianto era atto d'accusa all'abbandono. Ma quale abbandono se anch'io ero straziato? Io, che non avevo mai avuto un cane (se non un cucciolo di cane lupo per un breve periodo prima di regalarlo a mio zio, Katmandu l'avevamo chiamato), io che non avevo mai avuto un gatto o un pesce rosso...
No, in città, nelle strette stanze di una famiglia numerosa non poteva trovare posto un animale. Non solo per noi, come ripeto oggi anche ai miei figli, ma anche per lui. Un animale deve essere libero di correre, di vivere all'aria aperta, non recluso in un appartamento. Eppure, come oggi mio figlio, io quell'aspetto proprio non lo capivo. L'avrei voluto portare con me, condividere i miei pomeriggi, abbracciarla.
Mentre la macchina si allontanava, al grido di Yuba rispose il verso del cuculo ed un singhiozzo. Poi più nulla.


2. La macchina correva su una strada percorsa tante volte. La serata era stata piacevole, eravamo stati a Caserta per uno spettacolo. I pensieri lievi, le chiacchiere liete nel ritorno notturno a Benevento. Nessun pensiero grave pesava sugli animi, nessuna rabbia o violenza nelle nostre parole. Si scherzava, come altre volte. Sul sedile di dietro Enzo sonnecchiava.
Fu un attimo: un cane fermo, in mezzo alla strada, bloccato dalle luci improvvise dei fari, guardava senza potersi allontanare, senza voce, nel silenzio, nessun avvertimento urlato. C'era solo quel “no” ripetuto di Domenica che mi sedeva a fianco.
Avrei potuto fare qualunque cosa: frenare, sterzare, anche solo rallentare. Niente di tutto questo, solo guardare quel cane urtare dolcemente la macchina in corsa e solo dopo fermarmi, inutilmente, quando tutto era già avvenuto, quando non c'era più niente da fare se non guardare quel corpo sull'asfalto e maledire la mia incapacità.

In silenzio sono risalito in macchina, in silenzio sono ripartito. Rimaneva indietro una macchia di sangue sull'asfalto, un'ombra scura a bordo strada. Nei pensieri il ricordo di un altro cane che guaiva.

lunedì 7 dicembre 2015

C'è qualcuno che bussa



1) 
Mi sembra di comprendere, ora,
quel grumo di sabbia
che danza davanti agli occhi.

Le macerie accumulate, lo strapiombo
a picco sul mare, burroni,
crepe invisibili. Il vuoto.

Vuoto di parole - troppe
già dette e più niente
che resta - se non un ricordo.


2)
È questo il tuo tempo,
quello che incontri
tra il non più e il non ancora,
nel silenzio dei colori,
quando anche il tuo paese
appare bello alla distanza
dello sguardo che lo vede
per la centesima volta 
(l'infanzia, il dolore di carezze
non avute, il vuoto di desideri
irrealizzati), quando l'ostacolo
delle parole non tocca più
i pensieri, tutto è stato già fatto,
e non c'è (ancora) il rischio,
l'errore di essere fraintesi.

In questo tempo sospeso
giungo anch'io
                            per incontrarti.


3)
Ballavi in cima al baratro, fanciulla
ballavi tra gli alberi scomposta
e la pioggia confondeva sul viso
i colori, le lacrime.

(Salvare i tuoi resti dal tempo,
strappare dalla bocca del leone
un sorriso, uno sguardo o un bacio).

Oppure i tuoi capelli perduti
sull'orlo del pianto, l'incanto
del tuo camminare in equilibrio
sul ponte, e di nuovo specchi infranti...

(Cosa resta del giorno se non
le parole, l'abbraccio negato
sul far della sera, la chimera
del vivere ancora, soltanto).

Ma tu non ci sei, non qui tra l'urlìo
della città diversa, dimentichi 
di noi, se non appari più improvvisa
nei volti, nei gesti di chi passa,
e non c'è traccia da seguire,
non ci sei nella torma di pensieri,
crollata, infine, leggera nel vento...


4)
L'odore è quello di erba nuova,
noi chiusi dentro, il sole negli occhi,
oscuriamo porte e finestre, restano
i corpi, volano parole.
Il cuore pulsante di Orfeo
batte il tempo del nostro umore,
si apre il sorriso ad ospitare 
mondi (il mare lontano è qui),
creiamo brecce nel nostro scontento.
C'è chi va, chi torna, chi scompare,
travestiti di niente, solo ombra divina,
la ricerca di sé tra sedie e palline,
il sorriso, il pianto, la fine.
Noi restiamo. Poi qualcuno che va via.


5)
Piove. E questa pioggia che cade
è come le tue dita sul viso.

L'incontro è la parola sulla pelle,
il taglio, come quel bacio mancato,
ma lì, dove s'incontrano le nostre bocche,
nel verbo che resta nell'aria amara,
ostinati all'intreccio di cuori,
anche quando tutto affonda.

Giulio ricordi? Il concerto
poi pozzanghere ed acqua nera,
la libertà per me nell'aria di Napoli.

Ma è qui, nell'aria scura del giorno
mancante di te che ritrovo un sapore
salato, con la pioggia che cade,
ed io grigio nel grigio, sfatto,
una cosa perduta, per sempre, per sempre...


6)
C'è qualcuno che bussa,
piano, alla finestra, non tu.
Scomparso tra la pioggia,
veloce, ma non era quel che volevo
dire. Piuttosto l'odore di marcio,
bottiglie sparse sull'erba,
i resti del nostro scontento.
È accidia, invidia, è sorte...
                                                  morte?
Nemmeno quello però mi salva
lo sguardo tra la nebbia, l'albero cavo,
le mani tra la terra, le forbici,
il rastrello. Non basta il quotidiano
raschiare, bruciata la passione
resta cenere da raccogliere.

Ricostruire ancora, ma dove?
Affondo nella sabbia, il tuo profilo...


7)
Prigioniero. Fermato sui fogli
ritrovo quell'attimo, lo sfogo,
le lacrime, il sorriso... E poi
sparito insieme al viso.
il mio, il tuo, le corse sulla neve,
la prima per me, lo schiaffo
in faccia e la paura, le corse
per la città sonnolenta, il ponte
all'alba... Ma tutto si confonde,
tu e lei, come riflessi sul vetro,
e non so più chi resta ancora
nella memoria sfatta e chi scompare.


(2013-2015)

sabato 7 novembre 2015

Abbi dubbi



«Dubitare e' una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e' il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e' come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande» (Tiziano Terzani).


Non sono mai stato un rivoluzionario, sono sempre rimasto al di qua del limite, di qualunque limite.
Mi hanno anche chiamato radical chic, ma, davvero, non sono stato mai né radicale nelle mie idee (piuttosto sempre pronto ad accogliere il pensiero dell'altro) né tantomeno chic (di questo ho fatto sempre coscientemente a meno).

Il limite, il confine, l'orlo è quello che da sempre mi attira, il bordo dal quale osservare le cose. Per questo mi piace il mare, mai uguale a se stesso, il suo battere sugli scogli, il confondersi, lì in fondo, con la linea dell'orizzonte, il perdersi delle sue acque in un colore indistinto la notte. Così come la montagna, lì dove è grande la frattura.

Ho sempre creduto che solo in questo spazio mentale fosse possibile l'incontro, dove diventano fragili le verità assolute che ci siamo creati, nell'ospitare la parola dell'altro, nell'accoglierla in noi, nel silenzio che facciamo in quel luogo, lontano dalla chiacchiera del mondo.

Il mio fondamento è il dubbio, da lì parto per cercare una risposta. Io vivo nel dubbio.

Lì dove le mie verità diventano fragili, c'è la possibilità dell'incontro con l'altro. Proprio nel naufragio, quando tutto è perduto e all'orizzonte nessuna terra conosciuta.

Perché non abbiamo bisogno di Parole con la maiuscola, Patria, Bandiera, Uomo, Persona, ma di parole semplici, quelle del contatto viso a viso. Non quelle allo specchio, in cui parlare con un altro se stesso, o quelle in cui ci nascondiamo dietro una maschera.

Io ho solo incertezze. Da qui però posso partire per aprirmi agli altri. Un insieme di zattere che naviga alla deriva. Non importa la meta, importa il viaggio. 

Quello che conta non sono i simboli, il mistero. Se c'è un mistero che mi interessa è quello nascosto nel cuore dei miei compagni.

Abbi dubbi.

sabato 31 ottobre 2015

«Provengo da una morte»




Cara Laura,
ognuno ha le sue morti, piccole e grandi. Quella da cui provenivi ha segnato un destino, il tuo, ha segnato il tuo furore di perpetuare memoria, di gridare ad un mondo indifferente l’altezza di un ingegno e di una vita.

Ma, Laura, voglio dirti che per chi resta ogni morte è importante e segna, per sempre. Anch’io provengo da una morte, te l’ho scritto, ed ora che non ci sei ripenso ai tuoi scatti d’ira, le richieste e le fobie tutte in nome di un’idea, e quella rabbia scolora nell’improvvisa dolcezza di un istante… Come sempre dopo una morte.


* * *

Ho scritto queste poche righe dopo la morte di Laura Betti avvenuta il 31 luglio 2004. Con Laura avevo lavorato 10 anni prima, nel 1994 durante la preparazione e la realizzazione della manifestazione PIER PAOLO PASOLINI "...con le armi della poesia..." svolta a Napoli dal 15 ottobre al 20 novembre 1994.
Non era una donna facile, specialmente per la difesa e l'amore per Pasolini, per il quale lottava giorno e notte dalla sua morte. Durante quei giorni morì la madre di un mio caro amico, ed io le dissi che sarei andato a trovarlo. Mi aggredì, dicendo che dovevo restare. Me ne andai sbattendo la porta. In seguito le scrissi e lei, da grande donna qual era, mi rispose con affetto. La distanza delle proprie posizioni restava, ma ci univa anche il rispetto dei nostri valori.

martedì 27 ottobre 2015

Che tu sia per me



Ma c'era? C'era quella festa
di sorrisi, lo sguardo di mio padre
severo, accennava ad un "no".
(Che tu sia per me la frusta,
il graffio di sangue sulla pelle,
la ferita, il taglio, il dolore.
No, non sollievo, ma ansia,
ansia del corpo pronto al salto,
ansia del cuore innamorato).

C'era nell'aria l'odore di cose
nuove, buone, la salsa sul fuoco,
un dolce in forno, oppure quello
della pelle sull'erba bagnata,
schiena salata abbandonata al sole,
come pioggia che non si asciuga,
come lacrime, ma tu non c'eri.
(Sì, che tu sia per me il coltello,
il tormento senza pace
nella gioia sfrenata...).

giovedì 15 ottobre 2015

Ceneri


1) (il luogo)
Ci sono luoghi dove torno a fatica e che pure sono stati per me di conforto per lungo tempo.
Ora no, li osservo da lontano, magari passo davanti, ma non entro più.
Sono legati ad un tempo passato in cui la cosa importante, unica, era il contatto con una persona cara persa e quel luogo diventava per me, con tutti i suoi riti (i fiori, pulire la foto, accendere un lume), il modo per preservare un contatto.
Era anche il luogo dove si poteva piangere senza ritegno e se gli altri ti vedevano non c’era vergogna. Non che la cosa mi sia mai importata tanto, ma c’è un pudore che ci costringe a nasconderci quando lacrime invadono gli occhi.

2) (ipotesi di colloquio)
Ci sono dei colloqui calmi, sereni, fatti ai margini di una lapide. Confessioni e richieste di perdono, atti d’amore e sorrisi, parole, tante parole, che si uniscono ai silenzi, all’ascolto del vento tra i cipressi, alle litanie di preghiere distanti, ai colpi improvvisi di qualche tomba serrata…
Di questi colloqui fuori dal tempo rimane poco, spezzoni di frasi, residui che mi accompagnano per giorni e che improvvisi riemergono alla coscienza con una immagine, un gesto, un moncone di parola. (Ed ecco improvvise altre parole lontane):


Che giorno perfetto, così, che splendido giorno perfetto. Anche se è bruciata la materia della storia e il suo ricordo, disperso nell'acqua dove non restano che residui, rottami, il resto di una vita, pure ora ti sento qui, profondamente, nel ventre, che ti muovi dentro e tutto trascini con te come in un gorgo. 
è il vizio antico della memoria che torna e reclama per le tue dimenticanze, richiede un valore alle assenze, le incompiute azioni, il bacio mancato nella penombra degli occhi. Macina, macina, macina quella polvere, i fogli bagnati, i segnali mancati, le mani deluse, stanche...”

Non c'è niente e nessuno in queste pagine (nessuno bussa, nessuno invoca...), nessuno che sappia ancora com'era, lontano il bagliore, auto veloci e la pioggia che scorre leggera sui vetri. 
“No, non c'è più nessuno, lo sai, neanche io, neanche tu. E tutte le menzogne reclamano una verità e tutte le fughe una resa, l'ora dell'ultimo rigo in fondo alla pagina, la trave fondante, l'avanzo di noi, la macchia d'inchiostro caduta sul tavolo, il pezzo di legno che danza sull'acqua...”.

E' la notte che penetra a fondo nel giorno, volti smagriti, smarriti i nomi, nel vento: il libro bianco della memoria.
“Bianco, irreale... Qui ha inizio la vita nuova o quella antica verniciata di fresco, ma dietro? Vecchi segni, incrostazioni, la macchia d'umido che non è mai andata via...”

3) (passato presente)
Le cose dette tra noi ieri, oggi assumono un altro senso.
Le rivivo in rallenty, a volte, immagino scelte diverse, scene che mutano per un piccolo, insignificante particolare e tutto il futuro è cambiato.
A volte, tra la folla, un gesto di un volto per caso riporta il tuo volto, il tuo gesto. Ma è inganno, lo so bene oramai. C’è stato un tempo in cui credevo di poterti recuperare nel vivere di ogni giorno, preservando il ricordo dall’orrore quotidiano. Anche questo, col tempo, l’ho smarrito, ho perso fiducia nel ritorno. Le piccole dimenticanze sono diventate mancanze.
Eppure non è sempre così.
Qualche rottame di vita passata, qualche residuo naviga ancora dentro me.
E su quello ancora mi fondo. Su quella pietra d’inciampo fondo il presente e preparo il futuro.

4) (Riflessioni)
Si piange su una tomba più per se stesso che per chi non c’è più. È l’assenza di quell’affetto che ci fa piangere. Con la persona muore una parte di noi, quel pezzo di cuore condiviso che si trova, d’improvviso, solo, perduto, senza più la stanza comune dove dividere parole, sguardi, una carezza.
È che un patrimonio raccolto di affetti si sente ora dilapidato, per sempre, senza possibilità di riscatto.
«Gli uomini possono morire senza angoscia se sanno che ciò che amano è protetto dalla miseria e dall’oblio» (H. Marcuse).

5) (da un vecchio quaderno).
Ma cos’è, cos’è che davvero manca?
Gli occhi, che nel sorriso splendevano chiari o quel batticuore a vederti sul ponte a ballare armonie, le labbra dischiuse accennavano “sì”…
Oppure: “Non sono io, lo sai, quella che ricordi, è l’altra, altro, sei tu ragazzo che insegue i suoi sogni, quaderni scritti di getto, i libri divorati a cercare risposte”.
Ma se non sei tu, se sono io che ricerco ancora, disperato, dopo tanti anni, se non è il tuo viso riflesso sulla vetrina ma il mio quello che vedo, a che serve questo pianto sulla tomba, questo lamento perenne su ciò che non c’è?
è l’assenza che ti fa disperare, la perduta certezza dell’incontro”.

6) (da me al mondo)
Corpi senza braccia, volti senza bocca, muti. E le ceneri disperse nell’aria.

Prima voce: «Galleggiamo sul dorso, col ventre gonfio, gli occhi fissano il sole...non abbiamo più occhi, ma orbite che trat­tengono prigioniere delle immagini. La nostra pelle non è più la nostra pelle, ce l’hanno portata via come un vestito rubato, come un sudario in prestito. Le ustioni scivolano via come il ricordo delle nostre lacrime e restiamo senza misericordia. È una tempesta o il ritratto della nostra disfatta che si disegna tra le nuvole? Vinti lo siamo da noi stessi ed è l’abisso ciò che ci attende...»
Seconda voce: «...non ho più stomaco, non ho più corpo... sono un sacco, un campo in cima a una scogliera, un campo di pietre...ho freddo nella membra separate...che sia questo l’inferno, di aver freddo in un corpo fantasma? Chi parla dal fondo di questa fossa? Io? Io non sono più»
Terza voce: «Il lutto per noi è nello sguardo dei figli. Chi dirà loro storia delle nostre disfatte? Ci crederanno. Li vedo già sputare sui volti defunti. Quante parole inutili... Ah, il verbo, le parole...li vedo correre e incendiare la nostra memoria. Non sputano più, non parlano più, dimenticano»
Ma alla fine: cosa è rimasto di tutto questo... Da una tragedia all’altra, sempre più in fretta, sempre più fatalmente e follemente. «Ufficialmente tutto è finito da tempo, i morti sono seppelliti. Ma non tutti. Gli altri hanno contato i loro morti e li hanno sepolti in belle bare bianche, e hanno lasciato, dietro di sé, migliaia di vittime, corpi anonimi, senza futuro, senza passato».

Dalle Ceneri è uno splendido libro di Tahar Ben Jalloun sulla prima guerra del Golfo, sul diverso modo in cui vennero (vengono) considerati i morti dell’una e dell’altra parte. Ripenso a questo libro ascoltando il quotidiano strazio delle morti in Irak ripetendomi “né con la guerra né con il terrorismo”.
Ma non so se può bastare.

7) (Citazioni)
«Ricordare il passato può dare origine ad intuizioni pericolose, e la società stabilita sembra temere i contenuti sovversivi della memoria. Ricordare è un modo di dissociarsi dai fatti come sono, un modo di mediazione che spezza per brevi momenti il potere onnipresente dei fatti dati.  [...]. Riconoscere il passato come presente, [...] significa militare contro la chiusura dell’universo di discorso e di comportamento, significa rendere possibile lo sviluppo di concetti che scuotono la stabilità dell’universo chiuso e lo trascendono per il fatto di concepirlo come universo storico.» (H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione)

8) (un sogno)
A volte nel sogno mi vedo impaurito in mezzo alle tombe. Ma la paura non è per il luogo né per l’ora tarda (è notte, una notte senza luna) ma solo perché non riesco a trovare la tua e giro a vuoto tra quei lumini e quei fiori senza riuscire a trovare dove sei.
(Così accadde quando venni la prima volta: era chiuso il cimitero e scavalcai. Ho vagato a lungo lasciando infine i fiori davanti ad una tomba anonima).
A volte nel sogno sono in mezzo a una folla che non conosco e non so chi stia piangendo.
(Ma cosa fa questa gente diversa, che corre, grida lacera vesti, batte mani contro il viso a battere il tempo, tempo immobile del dolore, della nostalgia?).

9) (tentativo imperfetto di risposta ad una critica)
Questo passato, questo pensiero di ieri mi serve per l’oggi, nell’oggi, in ciò che faccio, nei gesti che compio con le persone a cui voglio bene.
Mi ricorda, quel passato, di dire le mie parole, i miei sentimenti. Di lottare per ciò in cui credo. Solo nel rapporto tra quel passato (il mio, certo, ma non solo), che si fa humus, seme, e l’oggi che vivo (che prepara il futuro) ha senso la mia vita.
No, amico mio, non nostalgia del passato, ma la vita di ieri come fonte dell’oggi.

10) (figli: propositi)
I miei figli conosceranno il mio passato e lo giudicheranno. E avranno il loro tempo da vivere. Il mio vissuto non dovrà incidere sul loro, se non nella misura in cui io modifico l’io di oggi in relazione a quel passato, che è mio, totalmente.
I miei figli creeranno il proprio tempo. Io posso solo cercare di prepararlo quanto meglio posso per me e per loro. A partire dal passato e dal presente che conosco.
La nostalgia che a tratti emerge è sentimento infantile per un io innocente e fanciullo, ma è anche critica a quell’io. Critica allo ieri e all’oggi che vivo, desiderio di cambiamento dell’esistente a partire da me. Senza massimi sistemi. Senza assolutizzare. Un passato non rimpianto ma vissuto nell’oggi.

11) Io sto parlando di oggi non di ieri.




(ottobre 2004)


sabato 10 ottobre 2015

Sul ciglio della felicità






"Felicità, vurria sapè ched'è chesta parola, vurria sapè che vvò significà.
Sarrà gnuranza 'a mia, mancanza 'e scola
ma chi ll'ha 'ntiso maje annummenà"


“E la felicità?” – mi chiedevi. “Sai scrivere di felicità? Sono così tristi le cose che scrivi”.
Allora non ti ho risposto. Vivevo. Ero felice. Oggi ti direi che non so scrivere se non di ciò che ho vissuto o vivo. Soltanto un evento che è sangue e carne mia accende qualcosa, un pensiero, un verso, anche solo un desiderio di scrittura che rimanga per me, un domani, quando non potrò più viaggiare, incontrare persone, scrivere. Solo così potrò ritrovare voci e luoghi, tutto quel mondo che urla e brucia in me.
Ricordo, vivo, immagino, sento…

Il ricordo è la pietra sulla quale ho costruito il presente; ma quella pietra è, spesso, inciampo al vivere di oggi. Così immagino scenari diversi, quello che sarebbe potuto essere e non è stato, evoluzioni che hanno senso solo nel mondo "altro" che abito con i pensieri ma che sento in maniera autentica, con trasporto.
…lo stridere che coinvolge il mio volere e il mio riuscire…

Ora scosso da inquietanti spasmi di infelicità cerco, come un'ossessione che non concede respiro, il significato del suo contrario sentire.

…e se la felicità fosse solo un'aspirazione, se fosse solo un porto immaginario, il traguardo atteso, il sogno vissuto tra calde lenzuola e avvolgenti ninne nanne?!

Felicità. Ogni esistenza vissuta è attraversata, più o meno spesso, da momenti di felicità che appaiono infiniti eppure insaziabili nell'esatto istante in cui siamo chiamati ad assaporarne il gusto. 

MOLTI tra questi momenti di felicità sono dovuti alla fortuna, alla non scelta condizione che ci è dato di vivere, a quanto ci è stato riconosciuto e concesso gratuitamente e solo perché siamo nati in quella particolare famiglia, in quel determinato momento storico e in quel determinato angolo del mondo. A dispetto di ciò e dell'azione della bendata fortuna posso dire, però, che TUTTI i momenti di felicità sono governati dalla volontà e dal coinvolgimento, perché per essere felici occorre davvero volerlo. Volontà e fortuna. Fortuna e volontà. 

Ritorno a me, al malessere che ora mi assale e mi sforzo di carpire il senso di quest'incessante stridere che coinvolge il mio volere e il mio riuscire...

Eppure c’è, nella felicità più piena, nella gioia sfrenata della tua danza tra gli alberi, un senso di fine, la percezione che non può durare. Non so bene se questo è legato per sempre alla tua morte, al fatto che quella viva felicità, posso dire la prima provata in età cosciente, “adulta”, sia stata macchiata dal dolore più grande, quello che ti toglie tutto e ti lascia gemente tra fiori e lumini.

Ma anche allora, quando, inconsapevole del male che ti rodeva le viscere, ti cercavo nei giorni frenetici, i giorni arsi dei miei diciotto anni, assaporando le tue labbra, c’era qualcosa, un tarlo, un grumo mai sciolto di sangue che martellava le tempie. Era la paura di non poterti dire mia. Troppo altro intorno. Un marito, dei figli, un mondo che ci giudicava severo con gli occhi suoi di condanna.
Cerca, mente, scava, trivella…felicità, dove era la felicità?

Ma io ho imparato a scovare la felicità anche nel buio più pesto, anche quando tutto sembrava perso… Sempre più giù, nel fondo. Ma può bastare?

Per troppo tempo ho ripetuto le stesse azioni: la ricerca di una felicità impossibile, amori già finiti prima di cominciare perché minati dallo spettro di te persa tra la folla. Eppure perseveravo: la felicità, dicevo, è qui, dietro quel volto che mi sorride. Un fallimento, una morte non può annullare tutto. Dimenticavo spesso che nella mia ansia di felicità rischiavo di rendere infelici altri. Dimenticavo che per essere felici, veramente felici, non bisogna far soffrire nessuno, mai.
…lo stridere che coinvolge il mio volere e il mio riuscire…

Ho sofferto. Ho fatto soffrire. Anche quando non volevo. Credevo. Speravo. Volevo. Incommensurabilmente. Volevo. Volevo a tutti i costi e rovinavo tutto… Volevo per riuscire tenacemente a preservare l'humus della mia felicità. Ma era il cuore, come sempre, che si lanciava avanti. La mente era dietro. Uno spazio enorme li divideva. Quando arrivava era tardi. Già tutto accaduto. Solo le cose da riconsiderare, rimettere in piedi, cercare di rimediare per continuare ad essere felici.

Oppure no: non era il cuore a prevalere ma la volontà. Sì, il desiderio assoluto di essere felice…mente ti prego non giudicare…di godere a pieno quei momenti di felicità…mente, non ora, non valutare…momenti inafferrabili, poi perduti, dei quali ho custodito solo frammenti. La volontà si, una volontà-uncino alla quale aggrapparmi, che lacera e sostiene, ma non dà sollievo.
…lo stridere che coinvolge il mio volere e il mio riuscire…

«Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità» (Epicuro)

La volontà consapevole cede spazio alla volontà distratta, i confusi pensieri che affollavano l'enorme spazio tra mente e cuore diventano nitidi, il frastuono delle sensazioni non disorienta ma è indizio per capire e tentare di saldare ogni frattura.

Ho imparato. Ho imparato, nel tempo, felicità diverse. Un sorriso ricevuto. Due occhi stupiti aperti sul mondo come una domanda. Una voce che improvvisa arriva dalla distanza ad annunciare incontro. L’ammore (sì, ammore) degli altri, quello che è il contrario di uno e che non è soltanto due; quello che ti dice di condividere e unire, quello che è parola e silenzio ed annulla l’indifferenza, quello che illumina. Una piccola mano che stringe la tua.

Ecco che partorisco spontanei sorrisi e spiego la fronte, prima corrucciata, in un'espressione candida e di sollievo. Provo felicità; felicità per il ravvivato ricordo delle gioie vissute, per i dolori affrontati e superati, per la tenacia che anima la resistenza di fronte alle tensioni nuove e ai singhiozzi sommessi, felicità per la possibilità di essere migliore e, soprattutto, di essere per gli altri un "significato" positivo capace anche di trasfondere felicità.

«Non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta». (Epicuro)


* * * 
Pubblicato su «soglie» sotto il nome di nuvola di vento, lo scritto è frutto di un laboratorio teatrale tenuto a Viggiano nel 1997.


sabato 26 settembre 2015

Mio padre in bianco e nero




C’è una foto di mio padre, in gruppo con altri carabinieri nello spiazzo interno della caserma, che guarda in alto, al balcone, dove ci sono io con mia madre (o almeno mi hanno sempre raccontato così) e mi lancia un richiamo, un fischio a cui immagino di rispondere con un sorriso ed un battere di mani.

Nel tempo ho perduto quel rapporto di affetto e protezione che mi legava a lui: l’autoritarismo, le imposizioni, le cose non dette hanno segnato le nostre vite di un lento allontanarsi fatto di radi ritorni, stentati abbracci. Nella voce, spesso, un senso di fastidio, il ricordo di altri giorni in cui le sue parole erano di condanna per le mie azioni. L’afasia dei sentimenti è abitudine difficile da annullare. C’è un pudore, nel dare una carezza, un abbraccio, che si è sedimentato ed ora è grumo duro da sciogliere.

Mio padre ha 93 anni. L’ho sempre visto alto, distante, difficile da raggiungere e soddisfare. Un uomo in cui il dovere era sinonimo di intransigenza. Un uomo severo, con rari slanci d’affetto. Ne ho avuto paura nella mia infanzia, ho avuto paura del giudizio, degli schiaffi. Ho vissuto nascosto nell’ombra per evitare le sue punizioni, l’ho odiato.

Eppure ci sono state anche altre parole, altre voci, anche qualche raro abbraccio. Ci sono ricordi, chissà perché poi quelli, fermati per sempre. Quei ricordi incerti in cui ci sono sorrisi, slanci improvvisi. È che il padre, quel padre, è stato giudicato, una volta e per sempre, per un giudizio dato sui miei amori, ma questa è un’altra storia…

Dicevo dei ricordi. Il primo è da bambino: la notte avevo avuto un incubo. Una strega arrivava a via De Nicastro e uccideva mio padre. Mi svegliai piangendo, col terrore negli occhi che conservavano ancora l’urlo muto del padre, nella mente il fiele del sogno. Arrivò, dolcemente mi prese tra le braccia a cullarmi, a chiedermi cosa mi avesse spaventato. Mentii per la gioia di averlo accanto, per l’abbraccio. Gli parlai di mostri e ferite, lui non c’era in quel racconto.

Un altro ricordo. A Napoli la prima scelta dell’Università era stata sbagliata. Quanto ci fosse in questa scelta di sue aspettative non so più dirlo, fatto sta che mi ero iscritto ad Ingegneria. Studiavo svogliato, senza passione, col timore però di affrontarlo e confessargli di avere sbagliato, di mostrarmi debole. Venne una mattina, e mi chiese cosa volessi fare (aveva già avuto sentore della mia rinuncia). A brandelli ammisi la scelta errata, diversa era la strada da prendere. Lui mi disse subito di sì, mi tolse dall’imbarazzo, ci abbracciammo.

Da lui ho avuto l’esempio dell’eccesso di puntualità: ancor oggi è per me necessità (una condanna) arrivare in anticipo, in un mondo in cui tutti ritardano. Ricordo uscite di casa un’ora prima della partenza del treno (perché chissà quale imprevisto poteva capitare), ed anch’io ancora seguo il suo esempio e mi lacero di angoscia (facendo finta di niente) se la mia famiglia non è pronta.

Ho pianto davanti a mio padre: per gli schiaffi ricevuti, per un dolore del cuore, per rabbia. Da bambino, ma anche da ragazzo, quando la pena del cuore era tale da togliere il fiato. Di tutte le volte solo quest’ultima ricordo oggi, quel pianto adulto, in cui lui, rompendo la nostra distanza, mi chiese cosa avessi. Ma lui poteva capire? Poteva capire un amore che condannava? Io ero certo di no e questo gli dissi tra le lacrime. Come poteva capire, lui, l’amore, la morte? Oggi, che sono padre, lo comprendo, ma ancora non riesco a perdonare.

Quest’anno mio padre ha pianto davanti a me. Io adulto e lui bambino, in uno scambio di ruoli. In macchina ricordava i tanti sacrifici fatti (e credo sentisse il peso degli anni, le persone scomparse, le rinunce per crescere cinque figli...). Ho assistito al suo pianto, in silenzio, guidando piano la macchina per la strada di campagna. Non avevo parole da offrire. Come potevo capire, io, il sacrificio, la morte? Io figlio diventavo padre distante, lui padre diventava figlio in pena. Ho annuito in silenzio al suo giorno di dolore.

Ci sono ricordi dolorosi, come i litigi con mia madre. Che scene grandiose. Piatti sbattuti per terra (con gli spaghetti attaccati al soffitto); docce fatte con la bottiglia d’acqua; grida e parole feroci (ed io nascosto in me stesso, inadatto a qualunque intervento che non fosse timore e tremore).

Ma io non posso giudicarlo se non giudicando me stesso, i miei errori, la mia incapacità a dire “ti voglio bene”. È mio padre. Nello scontro feroce tra orgoglio e tremore l’ho riconosciuto uguale a me, a chi sono oggi anche staccandomi da lui, anche abbattendolo, frantumandolo, odiandolo, per ritrovarlo poi di nuovo, intatto finalmente e senza più fraintendimenti, davanti al mio sguardo.

Ci siamo visti a settembre. L’ho trovato invecchiato, piegato dagli anni ma non spezzato. Sente più forte il peso dell’età, non sa ancora quanto vivrà. Questo rende più teneri i gesti, la mano rimane più a lungo in quella del figlio, gli occhi s’inteneriscono a guardare, è più forte il bisogno dell’incontro. Teme che non gli resti molto ancora.
Lo guardo e sorrido, perché quello che è stato con noi, e non è più, lo sono io coi miei figli (e lui a correggere, a dire di non essere troppo severi....). Lo guardo: la fronte stempiata da sempre, gli occhi chiari sul viso scavato, le gambe malferme che a stento reggono il peso del corpo, le braccia sottili. Eppure ancora in piedi, feroce, ostinato nel non arrendersi al tempo che avanza.


Ecco. Questo è mio padre. Non lui, ma il mio padre. In questa caotica serie di ricordi lo riconosco e mi riconosco.


* * *

Questo scrivevo a novembre 2014. Mio padre è morto il 30 agosto, di domenica. Caduto a febbraio non si è più alzato dal letto. Per un uomo come lui abituato ogni giorno ad uscire per fare la spesa, a farsi quelle scale di casa in lotta perenne con le ginocchia e con il fiato, è stato un colpo fatale. Il suo è stato un lento deperire, un abbandonare il campo in silenzio, restando solo fedele al suo carattere fermo e, come ha detto mia sorella, al suo sorriso.

Non sono andato molto a trovarlo: due brevi viaggi e un soggiorno più lungo ad agosto. La prima volta, a febbraio, c'era ancora in lui la voglia di lottare, di muovere la gamba, di alzarsi. Gli ho fatto la barba, abbiamo parlato, gli ho comprato il giornale. In lui c'era ancora la forza di resistere sull'orlo, di non lasciarsi andare, fidando nella sua forza di volontà, certo di potersi rialzare: ha accettato la mia mano goffa nel passargli il rasoio sul viso, così come le mie scarne parole, con gli occhi ancora vigili che seguivano i movimenti. La seconda volta lo sguardo era spento, il corpo smagrito: ha accettato di nuovo la mano sul suo viso senza dire niente, arreso a quel corpo che non sentiva più suo.

Quando si inizia a morire? Forse quando sentiamo che il corpo non reagisce più alla nostra volontà, quando anche le azioni quotidiane più semplici ci sono impedite. Io non lo so, so solo che nei dieci giorni di agosto mio padre cercava qualcosa senza più trovarla annodando una fascia come memoria, chiedendo ripetutamente "vorrei..." senza finire la frase, toccando una maglietta bianca o la barba dei figli, strappandosi di dosso i pantaloni, il catetere, i pannoloni, ripetendo, testardamente, il suo "no" al cibo offertogli, chiedendo soltanto di dormire, di restare disteso.

Io figlio ho pulito mio padre, gli ho cambiato i pannoloni come lui aveva fatto quando io ero bambino, l'ho rimproverato, gli ho fatto compagnia nei suoi silenzi, l'ho guardato nella sua nudità sostituendo il catetere, gli ho tenuto la mano, l'ho guardato sorridere a Matteo che mangiava al suo fianco, mentre intrecciava pensieri dietro i suoi occhi chiari...

Dov'era mio padre? Non in quel corpo smagrito, già andato via, smarrito. Non nella morgue, finalmente in pace. Cerco di ritrovarlo in queste parole, nel nome che porta mio figlio, nei gesti che faccio che sono suoi, nel carattere duro, in foto ingiallite... Non è lì. C'è ancora nei pochi ricordi che porto con me, in qualche sogno, in chi resta,

L'ultima volta l'ho visto nella bara, in chiesa, circondato da tutti i parenti e nipoti, ora sì felice dell'ultimo abbraccio. Per me che non credo è questo che conta: quell'ultimo incontro in cui siamo tutti più buoni e sorridiamo agli amici intrecciando parole e ricordi, dolore e speranza.

mercoledì 29 aprile 2015

De amicitia

  














Premessa
Ci sono alcuni valori a cui non verrei mai meno: sì, lo so, alcuni hanno cambiato natura, si sono trasformati con l’età, da certezze assolute si sono fatti sfrangiati, nebulosi, disomogenei. La zona di contrasto è diventata più sfumata, sono giunto a dei compromessi.
Ma alcuni valori no, non li ho mai barattati per un pezzo di pane, anche quando avevo fame, ed è di questo, oggi, che ti volevo parlare.

1.
Ci sono giorni che mi sveglio con l’angoscia di aver dimenticato qualcosa di importante da fare, da dire… Non so se hai presente, quelle mattine in cui, alzandoti, ti rendi conto di aver sprecato il giorno precedente, di avere rincorso inutilmente un pensiero. Troppo altro si affastella intorno, un mondo urge a cui non sai dare più risposte, se mai le hai sapute dare.

2.
In queste notti mi sveglio presto: ascolto i rumori della natura, osservo le nuvole rare nel cielo, il farsi del giorno. È qualcosa che avevo dimenticato, l’ascolto. Fermarsi ed aspettare che qualcosa accada intorno a te, il miracolo dell’improvviso silenzio in quell’ora che non è più notte e non è ancora giorno, quando, d’incanto, anche gli animali tacciono.
Lo so, è privilegio raro, e anche tu l’hai vissuto, in campagna, in quei posti solitari dove ancora c’è silenzio. Eppure, te lo giuro, di questi momenti ne ho vissuti anche a Napoli, nei giorni del mio primo anno di Università, ad Ingegneria, quando mi capitava di fermarmi a guardare il mare a Mergellina o spostandomi lento verso piazza Vittoria.
È condizione dell’animo, non dipende da fuori, è fare silenzio in te per ascoltare il mondo.

3.
Ma può bastare? Ce lo siamo già chiesti col Titanic (ricordi?) ed io non ho smesso di interrogarmi. Può bastare opporre il silenzio al frastuono e al caos? Può bastare l’andare lenti in un mondo che ha fretta? Non ci urge, ancora, di nuovo, dentro, come una bestemmia, un urlo lacerante che non può, non deve rimanere silenzio?
È questa la domanda che non trova risposta: come coniugare un’azione non indifferente alla necessità del silenzio?

4.
Per diverse notti sogno gli amici, quei pochi cari amici, da soli o insieme. Sono sogni dolci in cui l’amicizia dà il senso ad una vita. Mi risveglio appagato, in pace col mondo.
Esserci. Quando si è richiesti. Quando non ci si sente da tanto. Un abbraccio, lo sai, dopo mesi, anni, può bastare ad annullare le distanze, a dirci il sangue che pulsa nelle vene. Non ci sono addii, solo arrivederci, anche se sappiamo che passerà del tempo, anche se viviamo in luoghi diversi, distanti: «Vienimi a trovare».
Anche se il quotidiano ci allontana, presi e persi nella storia che è la vita: «Vienimi a trovare».
Oppure no. Basta uno squillo, il sorriso non visto che immagino al telefono, i tuoi occhi, il gesto nervoso della mano tra i capelli.
O lettere da lontano in cui dirci, con un pugno di canzoni mandate a raccontarci un mondo, una frase che illumina giorni e ci accompagna.
Non ci sono addii, solo arrivederci, anche quando sappiamo che non ci vedremo per lungo tempo. No, non è mai un addio.
«Vienimi a trovare».
È una frase che ripeto, è una frase che ripeti, e sappiamo, entrambi, che non è di circostanza. So che è vera, che lo vuoi veramente.

Promessa

Ero partito con una premessa che ora si fa promessa: la promessa è l’alleanza tra uomo e uomo, tra me e te; la promessa è non dimenticare, ricordare sempre tutto di noi; rendere viva, vera questa nostra amicizia, questo tempo distante che si dipana tra noi e ci allontana; la promessa è il silenzio e la domanda, è l’affetto che ci lega, valore a cui non venire mai meno.

martedì 14 aprile 2015

Gli inganni



a Judith Malina

La storia mi tiene prigioniera,
mi perseguita il passato...
ho sessantacinque anni e la mia grossa pancia
rotonda mi ricorda tutti i miei anni,
e forse di me non si ricorderà
che ho cercato di cambiare il mondo,
che ho scritto poesie e gridato
in teatro per scuotere coscienze,
ma solo che ho fatto un film,
un orribile film senza futuro,
senza passato...
Anche ora ricordo – i giorni
in piazza, la galera, l'amore
di Julian e di Hanon, la morte.
E tutto questo è stato,
ed io me lo porto dentro
e mi perseguitano i morti
del Vietnam ed insieme quelli
della guerra del Golfo,
Ed io vivo e ricordo,
tutti i morti, le guerre, le stragi...

La storia mi tiene prigioniera.

...


Questa poesia è datata 1992, quando a Napoli ebbi l'occasione di seguire delle lezioni del Living Theatre (conoscendo così Judith Malina) e di vedere il loro spettacolo Metodo Zero. La riprendo così come l'avevo scritta per ricordare lei che ha dedicato una vita alla lotta e al teatro.

domenica 22 febbraio 2015

Lontananze


Ricevere lettere è a volte rivivere, come un lampo, degli incontri: ecco che ti rivedo, gli occhi, i capelli, il sorriso, le parole.
C’è qualcosa che manca, però, sempre. Quelle mani “sorprese a cercare le mani”, quel vivere senza timore, inconsapevole, il colloquio, le cose dette e da dire, tutto quello che ancora avrei voluto condividere e di cui avrei voluto parlare. Mi manca un pezzo, tutto quello che non ho vissuto e condiviso, il tuo tempo diverso: porto, nel cuore, nella mente, in un luogo importante dentro di me, delle immagini e l'idea che dovunque sarai tu, dovunque sarò io, in qualche modo c'è un filo rosso che ci lega, che la distanza (qualunque sia) non può spezzare. Ma anche questo è un inganno: qualcosa ci divide, una striscia nera nei volti sulle fotografie (e insieme non ne abbiamo nemmeno), altro tempo che frastorna la mia vita, la tua vita.
Dove scorre la vita…. Non so. Troppe sorprese riserva, naufragi e improvvise salvezze, un dolore che spezza il petto e la gioia infinita che ci fa sospirare. Dove porta questo tempo? Dove ci conduce? Di là da noi stessi o ancora di più in profondità, nella frattura che ci fonda, nel nostro essere più vero?

Mi perdo spesso in qualcosa che non sono io: troppi impegni, troppa vita da gestire e il tempo che corre via senza che riesca a farlo mio. Lo ritrovo, d'un tratto, nelle parole di lettere che arrivano da lontano, lo afferro nella penombra mentre leggo al computer l'e-mail, ritrovo il dove e il quando, la ragione di una scelta, il viaggio interrotto che è diventato altro (è diventato viaggio nel mio passato e nel mio futuro oltre me stesso, attraverso nuova vita, attraverso vecchie voci che ritornano e ridanno ragione di una scelta).
La vitalità a volte manca, mi perdo in pensieri oziosi, meglio, mi perdo nel pensiero primo, nel puro pensare che è fuga dall'essere qui e ora. Mi manca, a volte, la vita che va, il viaggio, il mondo che ho percorso (quanta strada, scarpe rotte e calli sui piedi) e che ora non sempre ritrovo in visi ottusi, chiusi allo stupore, alla meraviglia del mondo. Per fortuna solo a volte. Poi ritrovo quegli occhi che sono quelli, l’immagine logica che mancava, il sorriso stupito, quegli occhi, e continuo, testardo, a sperare in un mondo migliore.

Ancora qualcosa: continua la ricerca, questo furioso cercare, perdersi, ritrovarsi. Non bisogna smettere mai il contatto con l'altro, lo scambio (come nel teatro, quando ci si scambia la pelle, ci si salva a vicenda), non smettere di scrivere. Anche in quei giorni difficili, quando il sogno fatto continua ad essere reale ancora per qualche attimo e si fa fatica a risintonizzarsi con la realtà. Sono sogni strani: a volte riportano volti dimenticati del passato, a volte annunciano insidie, consegnano paure. Lentamente si ritorna alla vita quotidiana ed il sogno, poco a poco, svanisce. Rimane solo un alone, come quei mal di testa che anche se vanno via persistono con una pressione lenta, a ricordarti che torneranno.


A volte sono imperdonabile, mi perdo nel tempo, in cose oziose, dimentico le cose più belle, il contatto con gli amici, le parole, il conforto (niente di più importante fa l'uomo, davvero). È che a volte mi perdo nell'inutile pensiero, nel pensiero primo, quello che contempla se stesso e non agisce.
Il pensiero che giudica e riflette, quello che guarda in profondità le cose, che sa ancora stupirsi delle meraviglie del mondo, lo sguardo bambino che accarezza il mondo, ecco, è questo pensiero secondo che cerco (ma a volte è davvero difficile). Ma in fondo non c'è niente di nuovo: questo continuo cercare ponti, legami tra zattere che procedono solitarie nel mare del nord. Mi chiedo spesso cosa sarei senza gli alunni e senza i miei figli e mia moglie.


Il mio rapporto con i ragazzi, anche quando mi arrabbio, è davvero irripetibile. Ci sono io per loro o ci sono loro per me? Chi è lì per chi, io per i ragazzi o loro per me? Insieme, l'uno per l'altro, come sempre, mi dico. Ma in alcune mattine, ripensando agli alunni passati, il sospetto che forse  ero io ad aver più bisogno di quel contatto, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, perché capita che mi manchino. Ma è quando mio figlio Michele non mi salta addosso e non mi chiede una storia, quando mio figlio Giulio non mi sorride, quando mia moglie è indaffarata in altro per pensare a me, oppure è domenica, con le strade vuote, la neve che copre tutto, un cielo grigio con un sole che va e viene sempre molto incerto… Allora davvero mi sento lontano da me.


Testo pubblicato su «soglie», aprile 2005.



domenica 11 gennaio 2015

Domeniche paz




Anche oggi abbiamo dedicato il nostro tempo e il nostro impegno al parco di Montereale, come facciamo oramai da più di due anni. L'abbiamo fatto nel silenzio della città o con qualche manifestazione che riportasse l'interesse delle istituzioni sul nostro parco. Non siamo pagati per farlo. Non abbiamo bandiere politiche. Non abbiamo interessi di poltrone. Dedichiamo liberamente il tempo, rubato al riposo, alla cura di un luogo simbolo della città, un luogo che ci appartiene come cittadini, un luogo in cui i nostri figli giocano. Nessuno ci ha prescritto di farlo, nessuno ce lo ha imposto come obbligo. Lo facciamo volentieri, consapevoli del nostro ruolo di cittadini, padri, amici, mettendo quella passione che dovrebbe essere naturale nella cura dei beni comuni. Avremmo tranquillamente potuto disinteressarcene, passare le nostre domeniche in casa, passeggiando per via Pretoria, facendo gite fuori città. Abbiamo deciso di passare il nostro tempo in altro modo. Ne siamo felici. Non chiediamo premi. E neppure riconoscimento o apprezzamento. Lo facciamo anche per noi, perché questa città è nostra, anche mia, giunto qui da altri luoghi.
Me lo ricordo anche oggi tutto questo, quando dobbiamo svuotare i cestini stracolmi e puzzolenti del parco; me lo ripeto quando raccogliamo cacche di cane o quando le pestiamo; continuo a dirmelo quando raccogliamo l'immondizia dalle scarpate, i fazzoletti da terra, i mozziconi. E ancora lo dico quando, finalmente (perché è questo forse di cui alla fine ci dovremmo occupare), ci dedichiamo a recuperare scale sommerse da rovi e sporcizia, quando togliamo rami e piante secche (per evitare che poi in estate un mozzicone buttato distrattamente faccia un bel rogo...), e quando quei rami li bruciamo in sicurezza (siamo lì, siamo sempre lì, ci vedete?).
Io non lo so se diamo fastidio a qualcuno e non mi interessa. Personalmente continuerò ad essere amico di Montereale, ad essere un Paz, anche se dovessi andare da solo (ma so che non sarà mai così).

Maggio




Nel sogno è come se nulla fosse successo. Scherzi tra i compagni con quel fare un po’ timido che ti contraddistingue, ridi della battuta di un amico, abbassi lo sguardo limpido.

La casa si svuota dai libri: faccio pacchi e li porto in soffitta. Ogni tanto mi fermo a rileggere una pagina, una parola sottolineata chissà quanto tempo fa. Si ammucchiano pezzi di vita, ricordi. Emerge, a tratti, un foglio dimenticato, parole appuntate e poi lasciate lì a marcire. Le riprendo come un fiore secco tra le pagine di un quaderno antico, le assaporo, cerco di recuperare il tempo in cui le ho scritte, inutilmente.

Odio gli ospedali, li ho sempre odiati. Ho grande difficoltà quando devo andare a trovare qualcuno, parente o amico. Il primo ricordo che ho di una camera di ospedale è quello di mio nonno in Sicilia, smagrito, pallido che mi parlava con un filo di voce dalla distanza in cui già si trovava, stanco, senza più forza per lottare.

Maggio è tempo di bilanci: correggo gli ultimi compiti, faccio medie, medito sui ragazzi e sul lavoro svolto da me. Li vedo affannati nell’ultimo mese per recuperare un 5, studiare come non hanno mai fatto per otto mesi. Altri, stanchi, rallentano il ritmo – il bel tempo invita ad uscire, anche se qui fino a S. Gerardo non sai mai che tempo farà. È l’ora dei bilanci di un anno di scuola: le cose sbagliate e le esperienze da ripetere, i fallimenti e le soddisfazioni, una vita intera in nove mesi, il tempo per far nascere un bambino.

Forse solo ostetricia, lì, nell’ospedale, è un’isola felice. Ma anche da quel luogo ho immagini diverse, maternità interrotte, raschiamenti, lacrime…

Nelle camere d’ospedale, tra flebo e camici bianchi, ho sempre l’impressione che si viva in un luogo altro, separato dalla vita che lontana continua, un luogo senza tempo in cui i giorni sono scanditi dal dolore, dalle visite di medici e parenti, dai pasti nei contenitori di plastica, pigiami che girano nei corridoi, odore di disinfettante. Penso sempre ad un racconto di Buzzati in cui chi entra nell’ospedale non ne esce più.

Continua lo sgombero della casa: tranne i giochi dei bambini tutto va in soffitta. Le librerie sono già vuote (fanno un certo effetto). Qualche disco si salva dalla furia ordinatrice. La casa è tutta un grande corridoio dove correre, vuota.
Resiste solo la tv.

Una visita è moto d’affetto, mi spinge il desiderio del sorriso, del balzo del cuore: la corrispondenza dei sensi, lo sguardo, la mano stretta a morsa, parche parole. Ma ci sono volte che è fatica salire le scale, vedere il dolore del volto che non so confortare…

Improvvise arrivano le paure. Non sapere cosa potrebbe succedere ai miei figli. Un pianto disperato ingiustificato provoca domande senza risposte. Sono una farmacia ambulante, ho medicine per ogni male che potrebbe colpire i miei figli, dall’aerosol alla pomata per i traumi, dagli antipiretici all’antibiotico. Osservo il loro respiro, pronto a cogliere il segno di crisi asmatica di cui io soffro. La notte, quando tutti dormono, passo per le camere a controllare il sonno, rialzo una coperto, do una carezza.

Quello sguardo sfuggente non è il tuo, non è quello che ricordo. Mi dicono che ci vuole tempo, rieducazione del corpo e della mente, le ferite su viso e gambe, le ferite dell’anima. Otto ore passate a pensare a cosa? Il corpo del compagno accanto senza vita. Non poter fare nulla se non aspettare.
Sì, ci vuole tempo. I primi passi, come un bambino, i numeri ripetuti come formula magica (è questo che facevi aspettando il giorno?), la mente un mistero.

So che sei tornato a casa: da domani inizia il lento lavoro di rieducazione in una città lontana. Auguri.

(2005)




Questo testo è stato scritto dopo un grave incidente automobilistico in cui un alunno perse la vita e un altro rimase a lungo in ospedale.