Nel sogno è come se nulla fosse successo. Scherzi tra i compagni con quel fare un po’ timido che ti contraddistingue, ridi della battuta di un amico, abbassi lo sguardo limpido.
La casa si svuota dai libri: faccio pacchi e li porto in soffitta. Ogni tanto mi fermo a rileggere una pagina, una parola sottolineata chissà quanto tempo fa. Si ammucchiano pezzi di vita, ricordi. Emerge, a tratti, un foglio dimenticato, parole appuntate e poi lasciate lì a marcire. Le riprendo come un fiore secco tra le pagine di un quaderno antico, le assaporo, cerco di recuperare il tempo in cui le ho scritte, inutilmente.
Odio gli ospedali, li ho sempre odiati. Ho grande difficoltà quando devo andare a trovare qualcuno, parente o amico. Il primo ricordo che ho di una camera di ospedale è quello di mio nonno in Sicilia, smagrito, pallido che mi parlava con un filo di voce dalla distanza in cui già si trovava, stanco, senza più forza per lottare.
Maggio è tempo di bilanci: correggo gli ultimi compiti, faccio medie, medito sui ragazzi e sul lavoro svolto da me. Li vedo affannati nell’ultimo mese per recuperare un 5, studiare come non hanno mai fatto per otto mesi. Altri, stanchi, rallentano il ritmo – il bel tempo invita ad uscire, anche se qui fino a S. Gerardo non sai mai che tempo farà. È l’ora dei bilanci di un anno di scuola: le cose sbagliate e le esperienze da ripetere, i fallimenti e le soddisfazioni, una vita intera in nove mesi, il tempo per far nascere un bambino.
Forse solo ostetricia, lì, nell’ospedale, è un’isola felice. Ma anche da quel luogo ho immagini diverse, maternità interrotte, raschiamenti, lacrime…
Nelle camere d’ospedale, tra flebo e camici bianchi, ho sempre l’impressione che si viva in un luogo altro, separato dalla vita che lontana continua, un luogo senza tempo in cui i giorni sono scanditi dal dolore, dalle visite di medici e parenti, dai pasti nei contenitori di plastica, pigiami che girano nei corridoi, odore di disinfettante. Penso sempre ad un racconto di Buzzati in cui chi entra nell’ospedale non ne esce più.
Continua lo sgombero della casa: tranne i giochi dei bambini tutto va in soffitta. Le librerie sono già vuote (fanno un certo effetto). Qualche disco si salva dalla furia ordinatrice. La casa è tutta un grande corridoio dove correre, vuota.
Resiste solo la tv.
Una visita è moto d’affetto, mi spinge il desiderio del sorriso, del balzo del cuore: la corrispondenza dei sensi, lo sguardo, la mano stretta a morsa, parche parole. Ma ci sono volte che è fatica salire le scale, vedere il dolore del volto che non so confortare…
Improvvise arrivano le paure. Non sapere cosa potrebbe succedere ai miei figli. Un pianto disperato ingiustificato provoca domande senza risposte. Sono una farmacia ambulante, ho medicine per ogni male che potrebbe colpire i miei figli, dall’aerosol alla pomata per i traumi, dagli antipiretici all’antibiotico. Osservo il loro respiro, pronto a cogliere il segno di crisi asmatica di cui io soffro. La notte, quando tutti dormono, passo per le camere a controllare il sonno, rialzo una coperto, do una carezza.
Quello sguardo sfuggente non è il tuo, non è quello che ricordo. Mi dicono che ci vuole tempo, rieducazione del corpo e della mente, le ferite su viso e gambe, le ferite dell’anima. Otto ore passate a pensare a cosa? Il corpo del compagno accanto senza vita. Non poter fare nulla se non aspettare.
Sì, ci vuole tempo. I primi passi, come un bambino, i numeri ripetuti come formula magica (è questo che facevi aspettando il giorno?), la mente un mistero.
So che sei tornato a casa: da domani inizia il lento lavoro di rieducazione in una città lontana. Auguri.
(2005)
Questo testo è stato scritto dopo un grave incidente automobilistico in cui un alunno perse la vita e un altro rimase a lungo in ospedale.
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