sabato 26 settembre 2015

Mio padre in bianco e nero




C’è una foto di mio padre, in gruppo con altri carabinieri nello spiazzo interno della caserma, che guarda in alto, al balcone, dove ci sono io con mia madre (o almeno mi hanno sempre raccontato così) e mi lancia un richiamo, un fischio a cui immagino di rispondere con un sorriso ed un battere di mani.

Nel tempo ho perduto quel rapporto di affetto e protezione che mi legava a lui: l’autoritarismo, le imposizioni, le cose non dette hanno segnato le nostre vite di un lento allontanarsi fatto di radi ritorni, stentati abbracci. Nella voce, spesso, un senso di fastidio, il ricordo di altri giorni in cui le sue parole erano di condanna per le mie azioni. L’afasia dei sentimenti è abitudine difficile da annullare. C’è un pudore, nel dare una carezza, un abbraccio, che si è sedimentato ed ora è grumo duro da sciogliere.

Mio padre ha 93 anni. L’ho sempre visto alto, distante, difficile da raggiungere e soddisfare. Un uomo in cui il dovere era sinonimo di intransigenza. Un uomo severo, con rari slanci d’affetto. Ne ho avuto paura nella mia infanzia, ho avuto paura del giudizio, degli schiaffi. Ho vissuto nascosto nell’ombra per evitare le sue punizioni, l’ho odiato.

Eppure ci sono state anche altre parole, altre voci, anche qualche raro abbraccio. Ci sono ricordi, chissà perché poi quelli, fermati per sempre. Quei ricordi incerti in cui ci sono sorrisi, slanci improvvisi. È che il padre, quel padre, è stato giudicato, una volta e per sempre, per un giudizio dato sui miei amori, ma questa è un’altra storia…

Dicevo dei ricordi. Il primo è da bambino: la notte avevo avuto un incubo. Una strega arrivava a via De Nicastro e uccideva mio padre. Mi svegliai piangendo, col terrore negli occhi che conservavano ancora l’urlo muto del padre, nella mente il fiele del sogno. Arrivò, dolcemente mi prese tra le braccia a cullarmi, a chiedermi cosa mi avesse spaventato. Mentii per la gioia di averlo accanto, per l’abbraccio. Gli parlai di mostri e ferite, lui non c’era in quel racconto.

Un altro ricordo. A Napoli la prima scelta dell’Università era stata sbagliata. Quanto ci fosse in questa scelta di sue aspettative non so più dirlo, fatto sta che mi ero iscritto ad Ingegneria. Studiavo svogliato, senza passione, col timore però di affrontarlo e confessargli di avere sbagliato, di mostrarmi debole. Venne una mattina, e mi chiese cosa volessi fare (aveva già avuto sentore della mia rinuncia). A brandelli ammisi la scelta errata, diversa era la strada da prendere. Lui mi disse subito di sì, mi tolse dall’imbarazzo, ci abbracciammo.

Da lui ho avuto l’esempio dell’eccesso di puntualità: ancor oggi è per me necessità (una condanna) arrivare in anticipo, in un mondo in cui tutti ritardano. Ricordo uscite di casa un’ora prima della partenza del treno (perché chissà quale imprevisto poteva capitare), ed anch’io ancora seguo il suo esempio e mi lacero di angoscia (facendo finta di niente) se la mia famiglia non è pronta.

Ho pianto davanti a mio padre: per gli schiaffi ricevuti, per un dolore del cuore, per rabbia. Da bambino, ma anche da ragazzo, quando la pena del cuore era tale da togliere il fiato. Di tutte le volte solo quest’ultima ricordo oggi, quel pianto adulto, in cui lui, rompendo la nostra distanza, mi chiese cosa avessi. Ma lui poteva capire? Poteva capire un amore che condannava? Io ero certo di no e questo gli dissi tra le lacrime. Come poteva capire, lui, l’amore, la morte? Oggi, che sono padre, lo comprendo, ma ancora non riesco a perdonare.

Quest’anno mio padre ha pianto davanti a me. Io adulto e lui bambino, in uno scambio di ruoli. In macchina ricordava i tanti sacrifici fatti (e credo sentisse il peso degli anni, le persone scomparse, le rinunce per crescere cinque figli...). Ho assistito al suo pianto, in silenzio, guidando piano la macchina per la strada di campagna. Non avevo parole da offrire. Come potevo capire, io, il sacrificio, la morte? Io figlio diventavo padre distante, lui padre diventava figlio in pena. Ho annuito in silenzio al suo giorno di dolore.

Ci sono ricordi dolorosi, come i litigi con mia madre. Che scene grandiose. Piatti sbattuti per terra (con gli spaghetti attaccati al soffitto); docce fatte con la bottiglia d’acqua; grida e parole feroci (ed io nascosto in me stesso, inadatto a qualunque intervento che non fosse timore e tremore).

Ma io non posso giudicarlo se non giudicando me stesso, i miei errori, la mia incapacità a dire “ti voglio bene”. È mio padre. Nello scontro feroce tra orgoglio e tremore l’ho riconosciuto uguale a me, a chi sono oggi anche staccandomi da lui, anche abbattendolo, frantumandolo, odiandolo, per ritrovarlo poi di nuovo, intatto finalmente e senza più fraintendimenti, davanti al mio sguardo.

Ci siamo visti a settembre. L’ho trovato invecchiato, piegato dagli anni ma non spezzato. Sente più forte il peso dell’età, non sa ancora quanto vivrà. Questo rende più teneri i gesti, la mano rimane più a lungo in quella del figlio, gli occhi s’inteneriscono a guardare, è più forte il bisogno dell’incontro. Teme che non gli resti molto ancora.
Lo guardo e sorrido, perché quello che è stato con noi, e non è più, lo sono io coi miei figli (e lui a correggere, a dire di non essere troppo severi....). Lo guardo: la fronte stempiata da sempre, gli occhi chiari sul viso scavato, le gambe malferme che a stento reggono il peso del corpo, le braccia sottili. Eppure ancora in piedi, feroce, ostinato nel non arrendersi al tempo che avanza.


Ecco. Questo è mio padre. Non lui, ma il mio padre. In questa caotica serie di ricordi lo riconosco e mi riconosco.


* * *

Questo scrivevo a novembre 2014. Mio padre è morto il 30 agosto, di domenica. Caduto a febbraio non si è più alzato dal letto. Per un uomo come lui abituato ogni giorno ad uscire per fare la spesa, a farsi quelle scale di casa in lotta perenne con le ginocchia e con il fiato, è stato un colpo fatale. Il suo è stato un lento deperire, un abbandonare il campo in silenzio, restando solo fedele al suo carattere fermo e, come ha detto mia sorella, al suo sorriso.

Non sono andato molto a trovarlo: due brevi viaggi e un soggiorno più lungo ad agosto. La prima volta, a febbraio, c'era ancora in lui la voglia di lottare, di muovere la gamba, di alzarsi. Gli ho fatto la barba, abbiamo parlato, gli ho comprato il giornale. In lui c'era ancora la forza di resistere sull'orlo, di non lasciarsi andare, fidando nella sua forza di volontà, certo di potersi rialzare: ha accettato la mia mano goffa nel passargli il rasoio sul viso, così come le mie scarne parole, con gli occhi ancora vigili che seguivano i movimenti. La seconda volta lo sguardo era spento, il corpo smagrito: ha accettato di nuovo la mano sul suo viso senza dire niente, arreso a quel corpo che non sentiva più suo.

Quando si inizia a morire? Forse quando sentiamo che il corpo non reagisce più alla nostra volontà, quando anche le azioni quotidiane più semplici ci sono impedite. Io non lo so, so solo che nei dieci giorni di agosto mio padre cercava qualcosa senza più trovarla annodando una fascia come memoria, chiedendo ripetutamente "vorrei..." senza finire la frase, toccando una maglietta bianca o la barba dei figli, strappandosi di dosso i pantaloni, il catetere, i pannoloni, ripetendo, testardamente, il suo "no" al cibo offertogli, chiedendo soltanto di dormire, di restare disteso.

Io figlio ho pulito mio padre, gli ho cambiato i pannoloni come lui aveva fatto quando io ero bambino, l'ho rimproverato, gli ho fatto compagnia nei suoi silenzi, l'ho guardato nella sua nudità sostituendo il catetere, gli ho tenuto la mano, l'ho guardato sorridere a Matteo che mangiava al suo fianco, mentre intrecciava pensieri dietro i suoi occhi chiari...

Dov'era mio padre? Non in quel corpo smagrito, già andato via, smarrito. Non nella morgue, finalmente in pace. Cerco di ritrovarlo in queste parole, nel nome che porta mio figlio, nei gesti che faccio che sono suoi, nel carattere duro, in foto ingiallite... Non è lì. C'è ancora nei pochi ricordi che porto con me, in qualche sogno, in chi resta,

L'ultima volta l'ho visto nella bara, in chiesa, circondato da tutti i parenti e nipoti, ora sì felice dell'ultimo abbraccio. Per me che non credo è questo che conta: quell'ultimo incontro in cui siamo tutti più buoni e sorridiamo agli amici intrecciando parole e ricordi, dolore e speranza.