1. Anima. Nella profondità degli occhi vedevo la sua anima che mi
parlava di affetto, di dolore, di perdita. Il mugolio saliva dal
profondo. Trattenuto fino a quel momento esplose come un grido. Era
una richiesta a cui non potevo rispondere, non più.
Nei lunghi giorni estivi precedenti quel momento eravamo stati tanto
insieme, troppo forse, C'è un'abitudine nel condividere giorno dopo
giorno le ore, che fa credere che quei momenti non finiranno mai, che
l'affetto, l'amore, le carezze dureranno per sempre. Non è così,
non è mai così.
Un uomo, un ragazzo se ne fa una ragione, l'inverno riporta i ritmi
della vita, la routine quotidiana spegne il ricordo del sole estivo,
delle corse, dell'odore dell'erba, tanto più per me che vivevo in
città, nel ventre accogliente della bestia, alle prese con i primi
umori dell'adolescenza.
Ma lei... Lei non poteva rassegnarsi. Lei che sarebbe rimasta lì,
per sempre. Questo diceva quel grido, tutto il rimpianto per ciò che
era andato perduto, tutto l'amore che, nonostante tutto, continuava
immutato, E niente sarebbe più stato come prima, anche se fossi
tornato l'anno seguente e quello dopo ancora.
Piangeva? Non so dirlo, perché a quel punto Yuba venne chiusa da mio
nonno nella stanza in basso, da dove proseguì il suo guaito, il suo
pianto disperato. Nella notte in cui stavamo partendo, nel silenzio
della villa, quel pianto era atto d'accusa all'abbandono. Ma quale
abbandono se anch'io ero straziato? Io, che non avevo mai avuto un
cane (se non un cucciolo di cane lupo per un breve periodo prima di
regalarlo a mio zio, Katmandu l'avevamo chiamato), io che non avevo
mai avuto un gatto o un pesce rosso...
No, in città, nelle strette stanze di una famiglia numerosa non
poteva trovare posto un animale. Non solo per noi, come ripeto oggi
anche ai miei figli, ma anche per lui. Un animale deve essere libero
di correre, di vivere all'aria aperta, non recluso in un
appartamento. Eppure, come oggi mio figlio, io quell'aspetto proprio
non lo capivo. L'avrei voluto portare con me, condividere i miei
pomeriggi, abbracciarla.
Mentre la macchina si allontanava, al grido di Yuba rispose il verso
del cuculo ed un singhiozzo. Poi più nulla.
2. La macchina correva su una strada percorsa tante volte. La serata era
stata piacevole, eravamo stati a Caserta per uno spettacolo. I
pensieri lievi, le chiacchiere liete nel ritorno notturno a
Benevento. Nessun pensiero grave pesava sugli animi, nessuna rabbia o
violenza nelle nostre parole. Si scherzava, come altre volte. Sul
sedile di dietro Enzo sonnecchiava.
Fu un attimo: un cane fermo, in mezzo alla strada, bloccato dalle
luci improvvise dei fari, guardava senza potersi allontanare, senza
voce, nel silenzio, nessun avvertimento urlato. C'era solo quel “no”
ripetuto di Domenica che mi sedeva a fianco.
Avrei potuto fare qualunque cosa: frenare, sterzare, anche solo
rallentare. Niente di tutto questo, solo guardare quel cane urtare
dolcemente la macchina in corsa e solo dopo fermarmi, inutilmente,
quando tutto era già avvenuto, quando non c'era più niente da fare
se non guardare quel corpo sull'asfalto e maledire la mia incapacità.
In silenzio sono risalito in macchina, in silenzio sono ripartito.
Rimaneva indietro una macchia di sangue sull'asfalto, un'ombra scura
a bordo strada. Nei pensieri il ricordo di un altro cane che guaiva.