Lo
so. Sono un passatista, uno a cui piace il teatro nel quale il
silenzio e il buio permettono il derdersi della vista e dell’udito.
Ma nell’età dell’homo videns e dei social anche il teatro ha
perduto la sua aura sacrale. Il mistero della parola che risuona
improvvisa, i silenzi carichi di attesa. C’è uno spettacolo nello
spettacolo, fatto di luci che si accendono nel buio, di whatsappiani
che chattano e non sanno fare a meno, neppure in quell’ora, di
rispondere all’amico, all’amante; di internauti che continuano a
navigare, di parlatori seriali che rivolgono domande al vicino o che
ripetono le battute del testo che conoscono, e le proseguono anche,
di fotografi incalliti che anziché gustarsi con gli occhi ciò che
accade mettono un filtro alle loro emozioni e cercano di fissarle 1,
2, 10 volte, con luci di flash che esplodono e rumori di otturatori
che si chiudono.
E
allora, forse, il mio giudizio sull’Amleto di Fortebraccio è
segnato anche da questa mia impossibilità a perdermi nello
spettacolo, ad emozionarmi completamente.
Intendiamoci:
bellissima la scenotecnica, la struttura luminosa circolare che di
volta in volta funge da campana, prigione, cielo, quinta, orizzonte
di Amleto/Amletmaschine; stupendi i giochi di luce, il lavoro sulla
voce a cui Latini ci ha abituati, con i microfoni diversi per le
diverse voci; le strutture metalliche a rappresentare personaggi
della tragedia e a rimandare al presente, ma… ma c’è qualcosa di
freddo in tutto questo, un’unione incompiuta, forse voluta, forse
no. È che nella messa in scena il discorso complessivo sembra venir
meno, spezzettato in tanti quadri. Certo, c’è il riferimento
all’oggi, alla frantumazione dell’individuo, all’impossibile
unità dell’io scisso tra bene e male, tra essere e non essere. Ma
a volte Latini gigioneggia troppo, nei suoi richiami a Bene, Eduardo,
lo stesso Muller da cui è partito per la sua riscrittura.
Chi
è Amleto? Che cosa ha ancora da dirci? La sua tragedia è tutta
appartenente al passato o si è portato, nel morire, qualcosa che
riguarda il nostro presente, il nostro futuro? I “classici”,
insomma, hanno ancora diritto di parola?
La
risposta per me è ovviamente s^. Amleto è il noi di oggi,
ammutolito e circondato da voci e suoni che lo separano da sé. Le
parole, che avevano senso allora, hanno perso di significato. Il
ripeterle, uguali a quelle del testo, mostra il loro essere divenute
vuote. La commedia, che si unisce alla tragedia, serve proprio a
relativizzarle, a farle perdere nel blabla (con cui si conclude
l’opera), nella chiacchiera quotidiana.
Tutto
il senso della tragedia di Amleto, delle morti (del padre, di Ofelia,
della madre, di Laerte, di Polonio di Amleto stesso e, ancora, di
Polidoro, Andromaca, Cassandra, Agamennone), dell’amore, della
vendetta, non c’è più, è perso come “lacrime nella pioggia”,
it’s time to die.
Cosa
resta dunque alla fine? La parola che ci dice, quella che sopravvive
alla chiacchiera e ci dà senso, l’umano che permane al
tecnologico, la memoria degli assenti senza i quali nulla sarebbe e
avrebbe senso.

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