giovedì 24 agosto 2017

Amleto + Die Fortinbrasmaschine



Lo so. Sono un passatista, uno a cui piace il teatro nel quale il silenzio e il buio permettono il derdersi della vista e dell’udito. Ma nell’età dell’homo videns e dei social anche il teatro ha perduto la sua aura sacrale. Il mistero della parola che risuona improvvisa, i silenzi carichi di attesa. C’è uno spettacolo nello spettacolo, fatto di luci che si accendono nel buio, di whatsappiani che chattano e non sanno fare a meno, neppure in quell’ora, di rispondere all’amico, all’amante; di internauti che continuano a navigare, di parlatori seriali che rivolgono domande al vicino o che ripetono le battute del testo che conoscono, e le proseguono anche, di fotografi incalliti che anziché gustarsi con gli occhi ciò che accade mettono un filtro alle loro emozioni e cercano di fissarle 1, 2, 10 volte, con luci di flash che esplodono e rumori di otturatori che si chiudono.

E allora, forse, il mio giudizio sull’Amleto di Fortebraccio è segnato anche da questa mia impossibilità a perdermi nello spettacolo, ad emozionarmi completamente.
Intendiamoci: bellissima la scenotecnica, la struttura luminosa circolare che di volta in volta funge da campana, prigione, cielo, quinta, orizzonte di Amleto/Amletmaschine; stupendi i giochi di luce, il lavoro sulla voce a cui Latini ci ha abituati, con i microfoni diversi per le diverse voci; le strutture metalliche a rappresentare personaggi della tragedia e a rimandare al presente, ma… ma c’è qualcosa di freddo in tutto questo, un’unione incompiuta, forse voluta, forse no. È che nella messa in scena il discorso complessivo sembra venir meno, spezzettato in tanti quadri. Certo, c’è il riferimento all’oggi, alla frantumazione dell’individuo, all’impossibile unità dell’io scisso tra bene e male, tra essere e non essere. Ma a volte Latini gigioneggia troppo, nei suoi richiami a Bene, Eduardo, lo stesso Muller da cui è partito per la sua riscrittura.

Chi è Amleto? Che cosa ha ancora da dirci? La sua tragedia è tutta appartenente al passato o si è portato, nel morire, qualcosa che riguarda il nostro presente, il nostro futuro? I “classici”, insomma, hanno ancora diritto di parola?
La risposta per me è ovviamente s^. Amleto è il noi di oggi, ammutolito e circondato da voci e suoni che lo separano da sé. Le parole, che avevano senso allora, hanno perso di significato. Il ripeterle, uguali a quelle del testo, mostra il loro essere divenute vuote. La commedia, che si unisce alla tragedia, serve proprio a relativizzarle, a farle perdere nel blabla (con cui si conclude l’opera), nella chiacchiera quotidiana.
Tutto il senso della tragedia di Amleto, delle morti (del padre, di Ofelia, della madre, di Laerte, di Polonio di Amleto stesso e, ancora, di Polidoro, Andromaca, Cassandra, Agamennone), dell’amore, della vendetta, non c’è più, è perso come “lacrime nella pioggia”, it’s time to die.

Cosa resta dunque alla fine? La parola che ci dice, quella che sopravvive alla chiacchiera e ci dà senso, l’umano che permane al tecnologico, la memoria degli assenti senza i quali nulla sarebbe e avrebbe senso.

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