L’afasia è il risultato di questi mesi di silenzi, di cui non restano che immagini sfocate e qualche canzone.
Non mi spingo più in là, non sporgo il viso oltre il bordo
fioco. Forse non faccio quel passo per paura, paura della porta sbattuta in
faccia, del pugno sul tavolo, delle grida d’ira, del silenzio.
Siamo ciechi l’uno all’altro, ognuno vive nel suo mondo
chiuso, nel suo schermo di cellulare o computer, e l’altro, figlio, padre, è un
riflesso ai margini, un’ombra che passa veloce e poi scompare. E non c’è
neppure la nostalgia, il ricordo di com’era. Tutto bruciato, tutto dimenticato.
Troia è in fiamme, ma tu non hai salvato i Penati, non porti sulle spalle il
vecchio padre e per mano il figlioletto. Sei solo. Come me.
E se tra noi non c’è più niente, se non la cenere di un
passato lontano, che cosa mi resta? Che cosa ti resta? Puoi costruire il tuo
futuro sull’odio, quando anche il desiderio è spento? Posso essere per te la
ferita? Posso essere per te il nemico? Ma se anche fosse, sarebbe già un
sentimento, un moto del cuore che spinge all’urto, al conflitto, al confronto,
a mettersi in gioco. Anche all’abbandono. Non così, non questo; quello che ti
porta a lasciare la casa e cercare la tua via, a sentire i colpi della vita sul
corpo, col sangue che pulsa e il pensiero di cosa mangerai domani.
Qui è un nascondersi, è un aspettare, un lento declino nell’attesa
che accada una meraviglia. Ma non accade mai.
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