Caro Nicola, non so ancora cosa sarà questa mail, forse solo alla fine avrà chiarezza di quello che in questi mesi mi frulla per la testa e cerca di arrivare alla luce senza riuscirci, che cerca di trovare le parole per sciogliere il grumo duro che si è andato formando e blocca il respiro. Ma queste sono solo parole vuote. Ho cercato a lungo di scriverti, ho pensato parole (belle, importanti, finalmente lineari) ma non sono mai riuscito a dargli peso per fissarle sulla carta. Piango spesso. Ascolto musica. Mi do pugni sulla testa. Leggo. Faccio il mio lavoro al meglio che posso. Ascolto Delia e la vedo struggersi, come me. Di notte mi alzo e cammino per casa. Mi fermo davanti alla porta, chiusa, di camera dei miei figli, accosto l'orecchio a sentire i respiri. Sopravvivo con questa angoscia, con le mille domande di cosa ho sbagliato, di quale peccato ho commesso, con loro bambini, che ora mi viene fatto scontare. O forse è il peccato di me figlio con mio padre, del dolore che ho dato a lui e che ora ritorna. Lotto. ma non so se riesco. Penso spesso che non sono il primo: altri prima di me hanno lottato con tardive adolescenze (***), adolescenze piene (**), imminenti adolescenze (*). Altri hanno subito colpi ben più forti e ben più gravi. Lo so. Ma questo non è di conforto, non aiuta a scacciare quel senso di impotenza. Come non aiuta l'idea che, in fondo, troveranno anche loro la propria strada, che dovranno scontrarsi direttamente con le difficoltà, affrontare il dolore della sconfitta e dell'insuccesso, sulla propria pelle, sulla propria vita. Non aiuta. Perché quello che manca è altro.
E le parole che ti dicono, Nicola, non hai idea. L'odio che esprimono è qualcosa che spezza il cuore. Ma neanche questo fa male. E' lo spreco, lo spreco di vita, di intelligenza. Si può passare una giovinezza sul letto con le cuffie e i video di instagram? Si possono passare i giorni tutti uguali senza far niente per cambiare, crogiolandosi nella propria insipienza, dando a qualcun altro (un male fisico, un male psichico, un amico che non risponde, un genitore che non capisce) sempre e sempre la colpa senza assumersi le proprie responsabilità? Le scuse che si trovano, anche in episodi costruiti ad arte del passato. E non ci sono parole che tengano, qualunque cosa si dica, qualunque cosa si faccia: parlare con loro, con la psicologa, con gli esperti di studio, con gli insegnanti, con gli amici poliziotti, con tutti Nicola. Ma sembra che niente funzioni, che niente riesca a smuoverli, a far loro comprendere né il nostro affetto, né le nostre paure, né il nostro sostegno e le nostre richieste (semplici, banali...). Non ci danno peso (traduzione che leggo in un libro di Erri del verbo "onora", "dai peso a tuo padre e tua madre"), siamo fuori dal loro orizzonte visivo e mentale, tutti presi dal proprio io, dal proprio buchetto, incapaci di guardarsi intorno, di vedere chi è loro accanto e del mondo che li circonda. Tutti fissi su uno schermo, sul nulla.Le parole che scrivo non sciolgono il grumo e non dicono nulla, lo so. Ma è un modo per dirti che ti so vicino, che ti voglio bene, che penso spesso alla nostra adolescenza, ai miei mutismi (come quelli di **), alle mie difficoltà ad Ingegneria (in parte simili a quelle di ***), ai pensieri che avevo allora, a quanto sia stato e sia importante questo legame con te (e forse questo manca ad entrambi, un legame come il nostro), a quanto l'amore e il dolore ci abbia segnato (e forse manca loro anche questo...), ai libri letti, che vorrei loro incontrassero, quei libri che ti cambiano la vita, alla scrittura, al senso del dovere.
Ascolto questa canzone pensando a *** e mi viene un magone che non so mandare via.
Mi è venuto in mente un film che nei miei 20 anni ho visto a Napoli (all'Astra, durante i mercoledì d'essay), con una frase che, forse in maniera distorta, avevo anche scritto nella mia "prima raccolta" poetica. Il film era Daddy nostalgie di Tavernier. Ho ritrovato la citazione girando per internet:
"Allora Caroline vagò per la città, a lungo. Non aveva la forza di fermarsi, né di sedersi in un caffè. Attraversò le strade senza vedere niente andando diritta davanti a sé, gli occhi spalancati come le aveva suggerito suo padre, perché la dolcezza di vivere è così effimera, amore mio. La dolcezza di vivere, la dolcezza di vivere… glie ne aveva parlato spesso, ma sempre al passato, come di una felicità che era andata in frantumi un poco alla volta, che lui aveva smarrito lungo la strada. Senza dubbio gli sarebbe piaciuto che lei si chinasse per aiutarlo a raccogliere i pezzi e a rimetterli insieme. Senza dubbio gli sarebbe piaciuto parlarle ancora e ancora fino a confessarle le sue paure, fino a che lei sarebbe riuscito a riscaldarlo. Ma lei era partita, e lui non aveva avuto la forza di aspettare il suo ritorno. L'indomani, si sarebbe confrontata con il viso sfatto di sua madre al capezzale di un vecchio giovanotto nato tra le due guerre. E il tempo sarebbe stato splendido. Allora Caroline avrebbe aperto le finestre e sua madre le avrebbe chiesto "A che serve ormai?".
"A far finta di vivere, in attesa che ce ne torni la voglia". '
Ecco: aspettare che torni la voglia di vivere, aspettare che il tempo cancelli il dolore di adesso, aspettare un tempo in cui ne rideremo con loro.
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