domenica 25 agosto 2024

Presentazioni - Gallo Moles



Gallo Moles - Voci di donne

Ho incontrato questo libro per caso, perché Luciana è la nonna di una mia ex alunna e perché mi ha detto che, in qualche modo, la sua scrittura era nata da un esercizio che avevo dato a Ludovica, la nipote. Questa è la premessa. Ma cosa mi ha colpito del libro? Partiamo dal titolo. Voci di donne. Dare voce alle donne. È già indicativo degli intenti, dare voce a chi “normalmente” non ce l’ha. Credo sia il primo aspetto meritorio. In un tempo in cui le voci delle donne sono cancellate, le donne sono cancellate un libro del genere è importante.

Ma quali donne? Ecco, qui mi sembra appaia chiaro un intento didattico. Luciana, insegnante, esperta di didattica, sceglie voci di donne note, famose, o meglio famigerate, che possano avere anche un uso didattico: da Eva a Cleopatra, da Aspasia a Didone, da Beatrice a Fiammetta. Dieci voci di donne che sono state raccontate da uomini e che qui invece prendono corpo. O meglio: il racconto è fatto su due piani; Chi dicono che io sia, dove, attraverso una ricca disamina delle fonti, l’autrice fornisce il quadro critico di ciò che è stato detto su queste figure femminili. Sono per la maggior parte dei casi voci di uomini che le hanno raccontate. La seconda parte è Chi dico che io sia: questo è, invece, un gioco letterario interessante, perché è una reiterpretazione, un esercizio insieme fantastico e critico.

È un esercizio che propongo spesso ai miei alunni, mutuato sulle interviste impossibili (o colloqui fantastici postumi) di Umberto Eco o Italo Calvino, ma qui l’intento è anche civico, cioè assume il punto di vista di chi è stato raccontato ma non ha mai avuto una propria voce, di chi ha assunto, in virtù di quel racconto scritto su di lei, una forma definitiva, qui indicata dal termine che accompagna il nome (adultera, angelicata, etera, peccatrice…). Penso a Laura, a Beatrice, a Francesca da Rimini (che sono le figure femminili su cui spesso faccio esercitare i miei alunni), ma anche Lesbia o Medea.

Permettetemi questo inciso: c’è un libro di Christa Wolf che si intitola Medea, Voci, che rilegge il mito euripideo della maga della Colchide alla luce di fonti pre-euripidee e che scagiona completamente Medea (a cui potremmo aggiungere il termine la straniera per non usarne uno peggiore) dalle terribili colpe che le vengono attribuite. Attraverso una serie di voci (tra cui anche quella di Medea stessa), la donna traccia un quadro del tutto diverso del mito, «una donna travagliata sì dall'amore, ma ancor più dall'incapacità degli abitanti di Corinto di integrare una cultura come quella della Colchide, per sua natura non incline alla violenza. Non un'infanticida dunque, al contrario una donna forte e generosa, depositaria di un remoto sapere del corpo e della terra, che una società intollerante emargina e annienta negli affetti fino a lapidarle i figli» (Anna Chiarloni, Postfazione).

Ecco. Questo secondo me è il compito di un esercizio del genere: mettersi nei panni di, fare un esercizio critico su, dare voce a chi non ce l’ha se non attraverso gli altri. Il punto di vista della Beatrice di Dante e della Laura di Petrarca diventa gioco ma soprattutto esercizio di comprensione. E anche rovesciamento di luoghi comuni. Fa comprendere magari realtà negate a quelle donne e uomini, rovescia storie raccontate in un certo modo. Certo, c’è bisogno prima di acquisire conoscenza di ciò che dice l’autore, di ciò che racconta il mito, di ciò che scrive la storia per poter cercare di comprendere e rovesciare dei modi di vedere codificati.

Esercizio meritorio, dunque, tanto più se si dà voce alle donne, da sempre indicate con stereotipi di seduttrici, prostitute, peccatrici o, al contrario, di angeli, pure e beatificanti.

Un ultimo punto vorrei brevemente toccare: la parola. Qui, ovviamente, siamo in presenza di figure note della storia, della letteratura, del mito, ma attraverso di loro prendono voce le altre, quelle a cui viene negata la parola, e negare la parola significa cancellare, negare il volto, l’esistenza, la vita stessa. Ridare voce a chi voce non ha. Tra le pieghe del testo, anche tramite le parole di altri scrittori. Si ridà dunque la fisionomia a quei milioni di volti spesso dimenticati, gli assenti. Come scrive Hans Magnus Enzensberger



Non li ha inghiottiti la terra. Era l’aria?
Come le arene del mare innumerevoli; non in arena
però conversi ma in nulla. A schiere
dimenticati. Spesso e di mano in mano,
come i minuti. Piú fitti di noi
ma senza ricordo. Non registrati,
non decifrabili nella polvere ma scomparsi
i loro nomi, i cucchiai, le suole.

Noi non li compiangiamo. Non può nessuno
rammentarsi di loro: sono nati,
fuggiti, morti? Dissolti
no. È senza lacune
il mondo ma lo tiene insieme solo
quel che non l’abita piú,
coloro che sono scomparsi. Essi sono dovunque.

Senza gli assenti, nulla ci sarebbe.
Senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo.
Senza gli incommensurabili, nulla di commensurabile.
Senza i dimenticati, nulla di certo.

Gli scomparsi sono giusti.
Cosí anche noi in un’eco.




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